Con tasse Europee, ogni famiglia italiana risparmierebbe 1.500 euro all’anno

Se potessimo contare su una pressione fiscale pari a quella media europea, ogni famiglia italiana risparmierebbe 1.506 euro di tasse all’anno. La CGIA è giunta a questo risultato comparando la pressione fiscale di tutti i 28 paesi dell’UE.

Dopodiché, ha calcolato quanto pagherebbe in più o in meno di tasse una famiglia media italiana1 se subisse la pressione fiscale del paese europeo oggetto del confronto. Avendo registrato una pressione fiscale superiore di 2,2 punti percentuali rispetto al dato medio dell’Unione, nel 2019 ogni famiglia italiana avrebbe risparmiato 1.506 euro.

Nella manovra 2021 è necessario un taglio da 20 miliardi Afferma il coordinatore dell’Ufficio studi CGIA, Paolo Zabeo: “Con la prossima legge di Bilancio è necessario un intervento choc che nel giro di qualche anno riduca di almeno 3-4 punti percentuali la pressione fiscale.

Chi ritiene che siano sufficienti solo 10 miliardi si sbaglia di grosso: questa cifra è insufficiente. Per il 2021 è necessaria una contrazione di almeno 20 miliardi di euro e questo obbiettivo potrà essere raggiunto solo se si riuscirà ad abbassare, di pari importo, la spesa pubblica improduttiva e una parte delle agevolazioni fiscali. Compiere questa operazione, comunque, non sarà per niente facile. Negli ultimi 10 anni, infatti, la spending review non ha prodotto risultati apprezzabili, mentre il numero delle deduzioni e delle detrazioni fiscali è aumentato a dismisura, soprattutto in questo periodo di Covid”.

Secondo l’Istat, nel 2019 era composta da 2,3 componenti

 Paghiamo tanto per avere pochi servizi

Un peso tributario eccessivo come quello presente nel nostro Paese costituisce un problema sia perché alleggerisce la disponibilità economica di tante famiglie e di altrettante imprese sia perché drena risorse che altrimenti potrebbero essere investite per favorire i consumi, gli investimenti e, quindi, lo sviluppo del sistema economico.

Sottolinea il segretario della CGIA, Renato Mason: “Con un carico fiscale così eccessivo e una platea di servizi erogati dalla nostra Pubblica amministrazione che negli ultimi anni è scesa sia in termini di qualità che di quantità, questa situazione ha contribuito a determinare una contrazione della domanda interna e un crollo degli investimenti pubblici. Ma oltre a tagliare le tasse è altrettanto importante semplificare il nostro sistema fiscale. Pagare le imposte è diventato sempre più difficile: lo dicono gli esperti, come i commercialisti e i tecnici delle associazioni di categoria. Figuriamoci come la pensano i piccoli imprenditori che oltre a occuparsi della propria attività, spesso sono chiamati a misurarsi con una burocrazia fiscale astrusa e scriteriata che non ha eguali nel resto d’Europa”.

Quest’anno il peso fiscale è destinato a salire nuovamente Stando agli ultimi dati disponibili (media anno 2019), la pressione fiscale in Italia si è fermata al 42,4 per cento del Pil, in aumento rispetto al 2018 di 0,7 punti percentuali. Questo incremento è avvenuto dopo 5 anni di costante riduzione del carico fiscale. Dopo il picco massimo di tutti i tempi toccato nel 2013, il peso di tasse e contributi ha cominciato a scendere, in particolar modo con l’esecutivo guidato da Renzi che, tra le altre cose, ha eliminato l’Imu sulla prima casa e ha alleggerito il costo del lavoro dei neo assunti .

Cosa succederà quest’anno ?

Premesso che con la pubblicazione della Nota di aggiornamento al DEF prevista nei prossimi giorni avremo contezza della soglia ragiunta quest’anno, abbiamo l’impressione che la pressione fiscale sia destinata ad aumentare ulteriormente. Non tanto perché sono state ritoccate all’insù le aliquote, cosa che infatti non è avvenuta, ma perché registreremo una caduta verticale del Pil più significativa della contrazione registrata dalle entrate. Ricordiamo, infatti, che la pressione fiscale è data dalla somma delle entrate tributarie e di quelle contributive; il risultato di questa operazione deve poi essere rapportato al Pil e, successivamente, moltiplicato per 100.

Per pressione fiscale siamo al 6° posto in UE
Tra i 28 paesi che nel 2019 costituivano l’Unione europea, l’Italia si è classificata al sesto posto per quanto riguarda il peso della pressione fiscale in percentuale del Pil. La Danimarca presenta il carico fiscale più importante (47,6 per cento), seguono la Francia (47,3 per cento), il Belgio (45,5 per cento), la Svezia (43,5 per cento) e l’Austria (42,9 per cento). Il sesto posto di questa particolare graduatoria è occupato dall’Italia che nel 2019 ha registrato una pressione fiscale del 42,4 per cento. Se tra i nostri principali competitor la Germania presenta un peso fiscale complessivo del 41,6 per cento, il Regno Unito e la Spagna, entrambe con un carico fiscale complessivo del 35,2 per cento, possono addirittura contare su un differenziale di 7,2 punti di tasse in meno rispetto al nostro Paese

 Con le tasse di Spagna o Regno Unito, una famiglia italiana risparmierebbe quasi 5.000 euro all’anno

Se nel confronto con la pressione fiscale media dell’UE riferita all’anno scorso (40,2 per cento) una famiglia italiana avrebbe pagato 1.506 euro in meno di tasse, nella comparazione con il carico fiscale in capo alla Germania, invece, avrebbe risparmiato 548 euro, con quella dei Paesi Bassi il vantaggio sarebbe stato di 2.123 euro, con il Regno Unito e la Spagna avrebbe addirittura potuto beneficiare di una sforbiciata pari a 4.930 euro. Sempre tra i grandi paesi d’Europa, spicca il risultato che emerge dal raffronto con la Francia. Se in Italia avessimo la stessa pressione fiscale di Parigi (47,3 per cento), la famiglia media italiana pagherebbe 3.355 euro di tasse in più e addirittura 3.561 euro se il confronto venisse effettuato con la Danimarca, che è il paese con la pressione fiscale più alta di tutta Europa (47,6 per cento) Col Portogallo abbiamo il record di “oppressione” fiscale




Barometro Crif: il 2020 si apre con una crescita delle richieste di prestiti

Nel mese di gennaio il numero di interrogazioni registrate sul Sistema di Informazioni Creditizie di CRIF relativamente alle richieste di prestiti da parte delle famiglie italiane (nell’aggregato di prestiti personali e prestiti finalizzati) ha fatto segnare un +5,9% rispetto allo stesso mese del 2019.

Motore della performance positiva sono stati i prestiti personali (+9,7%), ma anche i prestiti finalizzati contribuiscono al risultato positivo, facendo segnare un +2,9%.
Andamento delle richieste di prestiti personali e finalizzati

L’ultima rilevazione fa però registrare una lieve frenata dell’importo medio richiesto, che nell’aggregato di prestiti personali e finalizzati risulta pari a 9.408 Euro (-2,7% rispetto allo stesso mese del 2019).

Entrando nel dettaglio, per quanto riguarda i prestiti finalizzati a gennaio il valore mediamente richiesto è stato pari a 6.914 Euro (-0,4% rispetto a gennaio 2019), mentre per prestiti personali si è attestato a 12.415 Euro (-5,8%).

LA DISTRIBUZIONE PER CLASSE DI DURATA
L’analisi della distribuzione delle richieste di prestiti per durata del finanziamento conferma che anche nel mese di gennaio è la classe superiore ai 5 anni quella in cui complessivamente si sono concentrate le preferenze degli italiani, con una quota pari al 26,2% del totale. In crescita l’incidenza dei piani di rimborso inferiori ai 12 mesi, che passano dal 15,8% del 2019 al 16,4%.

Per quanto riguarda i prestiti finalizzati, la classe in cui si è concentrato il maggior numero di richieste è quella inferiore ai 12 mesi, con il 22,7% del totale, malgrado un calo di 2,4 punti percentuali, mentre le richieste di prestiti personali si orientano sempre di più verso piani di rimborso superiori ai 5 anni, che arrivano a spiegare il 44,0% del totale.

“In questa fase caratterizzata da una veloce evoluzione dei comportamenti della clientela retail, gli istituti di credito stanno ponendo una grande attenzione verso quello che tecnicamente viene definito ‘instant lending’, dove si saldano le tradizionali dottrine di valutazione del merito creditizio con i nuovi paradigmi del credito veloce derivanti dall’entrata in vigore della PSD2, la nuova normativa europea che ha aperto l’era dell’open banking – commenta Simone Capecchi, Executive Director di CRIF -. Questo sta obbligando gli operatori di settore ad attrezzarsi con soluzioni e processi in grado di rispondere in modo sempre più tempestivo ed efficace alle esigenze della clientela”.




Rc auto online: nel 2019 polizze online in lieve aumento rispetto al 2018

L’anno che sta per concludersi ha fatto registrare un minimo aumento (6% pari a 33 euro) dei costi assicurativi sostenuti dagli automobilisti che abbiano scelto di sottoscrivere una polizza online. L’ultimo studio SosTariffe ha stimato l’incremento del costo medio e della diffusione dell’Rc auto, considerando la tutela base e le principali garanzie accessorie

Assicurare la nostra auto online quest’anno ci è costato un po’ di più rispetto al precedente, anche se per fortuna nel 2020 potremo avvalerci della classe di merito RCA familiare, grazie al Decreto fiscale appena varato.

L’Osservatorio SosTariffe ha rilevato infatti nel 2019 un incremento minimo (+ 6%) del costo della polizza base RC auto sottoscritta sul web, il cui prezzo medio sale di 33 euro, a fronte del 2018.

Lo studio ha preso in esame oltre alla tutela base, anche le principali garanzie accessorie (dal soccorso stradale agli infortuni del conducente, passando per la Kasko e gli atti vandalici), facendo il punto sulle modifiche in termini di costi e diffusione nel corso dell’anno che volge al termine.

L’indagine, condotta a dicembre 2019, ha preso le mosse da dati ricavati dai preventivi RC auto richiesti al comparatore negli ultimi dodici mesi. Questi ultimi sono stati forniti da compagnie assicurative dirette, cioè attive soprattutto su internet.

Nel corso di un anno, dunque, il costo della polizza base è salito del 6%, crescendo di 33 euro. Se nel 2018 bastavano 556 euro in media per la garanzia di base, nel 2019 ne sono serviti invece 589.

Anche le voci accessorie hanno subito degli aumenti, seppur moderati. In ordine di rincari, risente dell’aumento maggiore il soccorso stradale (+ 25%). Il suo costo, infatti, è salito da una media di 20 a 25 euro. Per un totale di 5 euro in più, che nel complesso si fanno sentire.

Cresce un po’ meno la garanzia furto e incendio (+ 23%) che da una media di 91 euro arriva a pesare sul costo complessivo della polizza per 112 euro, pari a 21 euro in più.

Anche proteggere i cristalli nel 2019 ci è costato maggiormente (+20%): il costo medio di questa voce è schizzato infatti da 39 a 47 euro, con 8 euro di differenza.

Ha dovuto aggiungere 6 euro invece, chi si è assicurato contro gli infortuni del conducente, passando da spendere 37 a 43 euro (rincaro del 16%). L’aumento generale si ripercuote anche sulla garanzia che copre il veicolo da danni legati agli eventi naturali. In questo caso si registra un incremento di 7 euro, da 57 a 64 euro totali (pari al 13% in più).

Garanzie accessorie: gli incrementi minori

Quasi impercettibile la differenza di prezzo per la garanzia “tutela legale”, che passa da 16 a 17 euro (10% in più). La Kasko, in un anno è cresciuta solo del 5%. Ma in proporzione il suo costo si attesta su ben 25 euro in più, passando da una media di 496 agli attuali 520 euro. Irrisorio anche l’aumento della garanzia atti vandalici, che cresce da 92 a 94 euro (solo il 2% in più). Non risentono di alcun aumento invece, le voci animali selvatici (ferma a 25 euro annui) e auto di cortesia (ci costa in media sempre solo 5 euro).

Animali selvatici e soccorso stradale: le tutele più gettonate

Se invece ci concentriamo sotto il profilo della diffusione, quali sono le garanzie più richieste?

Nel corso dell’anno che sta per concludersi, è curioso notare, si è registrato un brusco aumento per la tutela nei confronti dei danni da animali selvatici. Questa voce della polizza ha subito infatti un aumento di diffusione pari addirittura all 88%. Si tratta di una garanzia gettonata soprattutto da chi vive in montagna o nei pressi di parchi naturali in cui è facile incontrare fauna autoctona, come cervi o cinghiali.

Sempre più sottoscritta anche la tutela Kasko (+ 63% di diffusione). Si tratta, com’è noto, di una polizza, che consente al contraente di ottenere in caso di sinistro un risarcimento del danno a prescindere dalla responsabilità. Anche se lui stesso causa un sinistro stradale.

Al terzo posto sul podio della maggiore diffusione troviamo il soccorso stradale (43% in più). La garanzia accessoria prevede, 24 ore su 24 in Italia e all’estero, il traino dell’auto fino all’officina più vicina nel caso in cui, in seguito a un sinistro stradale, non sia più utilizzabile. Mentre nel 2018 sceglievano di avvalersene soltanto il 29% degli automobilisti, quest’anno se ne sono avvalsi molti di più (41%). Tra le garanzie la cui diffusione è cresciuta meno nel corso dell’ultimo anno troviamo invece a pari merito atti vandalici e auto di cortesia (+ 37%), seguite da furto e incendio (più 31%) e infine infortuni del conducente (più 29 %).




Fondazione Gimbe: crescono ancora nuovi casi, ricoveri e terapie intensive

Il monitoraggio indipendente della Fondazione GIMBE rileva nella settimana 24-30 novembre 2021, rispetto alla precedente, un aumento di nuovi casi (86.412 vs 69.060) (figura 1) e un aumento dei decessi (498 vs 437). Crescono anche i casi attualmente positivi (194.270 vs 154.510), le persone in isolamento domiciliare (188.360 vs 149.353), i ricoveri con sintomi (5.227 vs 4.597) e le terapie intensive (683 vs 560) . In dettaglio, rispetto alla settimana precedente, si registrano le seguenti variazioni:

  • Decessi: 498 (+14%), di cui 14 riferiti a periodi precedenti
  • Terapia intensiva: +123 (+22%)
  • Ricoverati con sintomi: +630 (+13,7%)
  • Isolamento domiciliare: +39.007 (+26,1%)
  • Nuovi casi: 86.412 (+25,1%)
  • Casi attualmente positivi: +39.760 (+25,7%)

«Da sei settimane consecutive – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – continuano ad aumentare a livello nazionale i nuovi casi settimanali (+22%) con una media mobile a 7 giorni più che quintuplicata: da 2.456 il 15 ottobre a 12.345 il 30 novembre» (figura 4). L’aumentata circolazione virale è documentata dall’incremento sia del rapporto positivi/persone testate (da 3,6% a 17,1%) , sia del rapporto positivi/tamponi molecolari (da 2,4% a 7,2%) e positivi/tamponi antigenici rapidi (da 0,07% a 0,38%) .

In tutte le Regioni si rileva un incremento percentuale dei nuovi casi: dal 3,2% di Abruzzo e Umbria al 39% delle Marche . In 98 Province l’incidenza è pari o superiore a 50 casi per 100.000 abitanti e in 16 Regioni tutte le Province superano tale soglia: Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto. In 32 Province si registrano oltre 150 casi per 100.000 abitanti: Trieste (635), Bolzano (552), Gorizia (496), Rimini (362), Treviso (342), Forlì-Cesena (321), Padova (321), Venezia (300), Vicenza (298), Aosta (286), Pordenone (252), Ravenna (245), Ascoli Piceno (234), Imperia (233), Udine (219), Bologna (213), Rovigo (213), Belluno (209), Pesaro e Urbino (203), Fermo (200), Ferrara (192), Trento (188), Verona (184), Viterbo (177), Varese (176), Verbano-Cusio-Ossola (164), Cremona (164), Roma (161), Genova (160), Monza e Brianza (157), Ancona (155) e Como (151) .

In aumento i decessi: 498 negli ultimi 7 giorni (di cui 14 riferiti a periodi precedenti), con una media di 71 al giorno rispetto ai 62 della settimana precedente.

«Sul fronte ospedaliero – afferma Renata Gili, responsabile Ricerca sui Servizi Sanitari della Fondazione GIMBE – si registra un ulteriore incremento dei posti letto occupati da pazienti COVID: rispetto alla settimana precedente +13,7% in area medica e +22% in terapia intensiva». A livello nazionale, al 23 novembre, il tasso di occupazione è del 9% in area medica e dell’8% in area critica, con notevoli differenze regionali: la soglia del 15% per l’area medica e del 10% per l’area critica risultano entrambe superate nella Provincia Autonoma di Bolzano (rispettivamente 20% per l’area medica e 11% per l’area critica) e in Friuli-Venezia Giulia (rispettivamente 23% per l’area medica e 14% per l’area critica); inoltre, in area medica si colloca sopra soglia la Valle D’Aosta (21%), mentre per l’area critica superano la soglia Lazio (10,3%) e Umbria (13%). «Gli ingressi giornalieri in terapia intensiva – puntualizza Marco Mosti, Direttore Operativo della Fondazione GIMBE – continuano ad aumentare: la media mobile a 7 giorni è passata da 48 ingressi/die della settimana precedente a 56» .

Vaccini: forniture. Al 1° dicembre (aggiornamento ore 06.15) risultano consegnate 102.127.530 dosi. «Considerato che le forniture degli ultimi 7 giorni ammontano solo a 433mila dosi – commenta Mosti – l’attuale ritmo delle somministrazioni di terze dosi ha ridotto le scorte di vaccini a mRNA a quota 6,1 milioni».

Vaccini: somministrazioni. Al 1° dicembre (aggiornamento ore 06.15) il 79,7% della popolazione (n. 47.226.119) ha ricevuto almeno una dose di vaccino (+297.415 rispetto alla settimana precedente) e il 77,1% (n. 45.683.073) ha completato il ciclo vaccinale (+247.367 rispetto alla settimana precedente) . Cresce nell’ultima settimana il numero di somministrazioni (n. 1.984.561) con una media mobile a 7 giorni di 306.445 somministrazioni/die: decollano finalmente le terze dosi (+52,5% rispetto alla settimana precedente), affiancate da prime dosi di nuovo in crescita (+34,7% rispetto alla settimana precedente)

Rispetto ai target definiti dalla struttura commissariale per il periodo 1-12 dicembre, l’obiettivo per i giorni feriali (400-450 mila dosi dal lunedì al venerdì e 350 mila il sabato) appare realistico considerato che dal 24 novembre le somministrazioni giornaliere feriali si attestano stabilmente oltre quota 300.000. Meno probabile raggiungere 300.000 somministrazioni nei giorni festivi: durante l’ultimo mese, infatti, la domenica le somministrazioni non hanno mai raggiunto quota 100 mila, eccetto il 28 novembre in cui le somministrazioni sono state poco più di 150 mil

Vaccini: nuovi vaccinati. Dopo due settimane di stabilizzazione intorno a quota 127 mila, nell’ultima settimana il numero dei nuovi vaccinati è salito a 168.377 (+31,5%) . Tuttavia, dei 6,8 milioni di persone non vaccinate crescono troppo lentamente due fasce che preoccupano: da un lato 2,57 milioni di over50 ad elevato rischio di malattia grave e ospedalizzazione, dall’altro 1,16 milioni nella fascia 12-19 che influiscono negativamente sulla sicurezza delle scuole .

Vaccini: coperture. Le coperture con almeno una dose di vaccino sono molto variabili nelle diverse fasce d’età (dal 97,4% degli over 80 al 76,6% della fascia 12-19). Lo stesso si registra sul fronte delle coperture con terza dose, che negli over 80 hanno raggiunto il 52,1%, mentre si attestano ancora al 20,2% nella fascia 70-79 e al 16% in quella 60-69 anni .

Vaccini: efficacia. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità confermano la riduzione dell’efficacia vaccinale dopo 6 mesi dal completamento del ciclo primario, confermando la necessità del richiamo. In dettaglio:

  • l’efficacia sulla diagnosi scende in media dal 72,5% per i vaccinati entro 6 mesi al 40,1% per i vaccinati da più di 6 mesi;
  • l’efficacia sulla malattia severa scende in media dal 91,6% per i vaccinati entro 6 mesi all’80,9% per i vaccinati da più di 6 mesi.

Vaccini: terza dose. Al 1° dicembre (aggiornamento ore 06.15) sono state somministrate 6.543.004 terze dosi con una media mobile a 7 giorni che supera le 250 mila somministrazioni al giorno .

Sul repository ufficiale del Commissario Straordinario il 1° dicembre la platea per la terza dose (n. 20.548.124) è stata aggiornata sommando tutte le persone vaccinabili (con dose aggiuntiva o booster) secondo le indicazioni delle Circolari ministeriali dell’8 ottobre, 3 novembre, 11 novembre e 25 novembre. Il tasso nazionale di copertura vaccinale per le terze dosi calcolato sulla platea ufficiale è del 31,8% con nette differenze regionali: dal 21,6% del Friuli-Venezia Giulia al 44,5% del Molise .

Variante Omicron. Alla variante B.1.1.529 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha assegnato con il nome di Omicron, classificandola come variante di preoccupazione, per le numerose mutazioni presenti. Tuttavia, ad oggi i dati disponibili non permettono di sapere se, rispetto alla Delta, la variante Omicron è più trasmissibile, causa una malattia più severa, se è più probabile reinfettarsi e se può ridurre la risposta immunitaria ai vaccini.

«In questa fase d’incertezza – conclude Cartabellotta – bisogna potenziare tutti gli interventi, seguendo il principio della massima precauzione. In particolare, incrementare le attività di sequenziamento condividendo i risultati nel database GISAID, potenziare il tracciamento dei casi e monitorare attentamente le aree con rapido aumento di incidenza. Per la popolazione rimangono fondamentali i comportamenti già noti: vaccinarsi e sottoporsi alla terza dose quando indicata – con massima priorità per anziani e fragili, utilizzare la mascherina negli ambienti chiusi, possibilmente FFP2 se affollati, rispettare il distanziamento sociale e ventilare frequentemente i locali».




Tasse e Burocrazia costano alle imprese 138miliardi all’anno

Il micidiale mix di tasse e burocrazia ha superato la soglia dei 138 miliardi di euro; a tanto ammonta il costo che grava ogni anno sui bilanci delle imprese italiane, penalizzando, in particolar modo, le realtà di piccola e media dimensione.

Uno spaccato, quello fotografato dall’Ufficio studi della CGIA, che fa rabbrividire: a fronte di un gettito complessivo annuo di 81,2 miliardi di euro di tasse versate all’erario1, il costo annuo sostenuto dalle nostre imprese per la gestione dei rapporti con la Pubblica Amministrazione è di oltre 57 miliardi2. In buona sostanza “tasse & burocrazia” costituiscono un giogo da 138,3 miliardi di euro all’anno, pari a quasi 8 punti di Pil, che zavorra le aziende e frena l’economia del Paese.

“Il Governo – sostiene il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – dovrebbe riflettere su questi dati e cominciare a lavorare per ridurne l’impatto. Se, a causa della situazione dei nostri conti pubblici, abbattere il carico fiscale in misura significativa non appare per nulla semplice, una drastica riduzione della cattiva burocrazia, invece, potrebbe essere ottenuta a costo zero, o quasi”.

Come? Prosegue Zabeo: “Riducendo il numero delle leggi attraverso l’abrogazione di quelle più datate, evitando così la sovrapposizione legislativa che su molte materie ha generato incomunicabilità, mancanza di trasparenza, incertezza dei tempi ed adempimenti sempre più onerosi, facendo diventare la burocrazia un nemico invisibile difficilmente superabile”.

Secondo “ The European House – Ambrosetti”, infatti, la produzione legislativa del nostro Paese non ha eguali nel resto d’Europa. In Italia, si stima vi siano 160.000 norme, di cui 71.000 promulgate a livello centrale e le rimanenti a livello regionale e locale. In Francia, invece, sono 7.000, in Germania 5.500 e nel Regno Unito 3.000. Tuttavia, la responsabilità di questa iper legiferazione è ascrivibile alla mancata abrogazione delle leggi concorrenti e al fatto che il nostro quadro normativo negli ultimi decenni ha visto aumentare esponenzialmente il ricorso ai decreti legislativi che, per essere operativi, richiedono l’approvazione di decreti attuativi. Questa procedura ha aumentato a dismisura la produzione normativa in Italia. Afferma il segretario della CGIA, Renato Mason:

“I tempi e i costi della burocrazia sono diventati un problema che caratterizza negativamente il nostro Paese, all’interno del quale coesistono situazioni molto differenziate tra Nord e Sud nonché tra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale. Nel Mezzogiorno, dove la Pa è meno efficiente, la situazione ha assunto profili particolarmente preoccupanti. Non è un caso, infatti, che molti investitori stranieri non vengano in Italia proprio per la farraginosità del nostro sistema burocratico che ha generato un velo di sfiducia tra le imprese private che non sarà facile rimuovere”.

Altrettanto preoccupanti sono i risultati che emergono dalla periodica indagine campionaria condotta da Eurobarometro (Commissione europea) sulla complessità delle procedure amministrative che incontrano gli imprenditori dei 28 Paesi dell’Unione. L’Italia si trova al2° posto di questa graduatoria (per l’86 per cento degli intervistati la cattiva burocrazia è un serio problema). Solo la Romania presenta una situazione peggiore della nostra, mentre il dato medio dell’Unione europea si attesta al 62 per cento3.

Nello specifico, cosa si potrebbe fare per migliorare l’efficienza della nostra Pubblica amministrazione, alleggerendo così i costi amministrativi delle aziende? Innanzitutto, come dicevamo più sopra, bisogna semplificare il quadro normativo. Cercare, ove è possibile, di non sovrapporre più livelli di governo sullo stesso argomento e, in particolar modo, accelerare i tempi di risposta della Pubblica amministrazione.

Con troppe leggi, decreti e regolamenti i primi penalizzati sono i funzionari pubblici che nell’incertezza si “difendono” spostando nel tempo le decisioni. Nello specifico è necessario:

  • migliorare la qualità e ridurre il numero delle leggi, analizzando più attentamente il loro impatto, soprattutto su micro e piccole imprese;
  • monitorare con cadenza periodica gli effetti delle nuove misure per poter introdurre tempestivamente dei correttivi;
  • consolidare l’informatizzazione della Pubblica amministrazione, rendendo i siti più accessibili e i contenuti più fruibili;
  • permettere all’utenza la compilazione esclusivamente per via telematica delle istanze;
  • procedere e completare la standardizzazione della modulistica;
  • accrescere la professionalità dei dipendenti pubblici attraverso

    far dialogare tra di loro le banche dati pubbliche per evitare la duplicazione delle richieste; un’adeguata e continua formazione.




Dieta mediterranea vince la sfida mondiale

La dieta mediterranea nell’anno dell’emergenza sanitaria si è classificata come migliore dieta al mondo davanti alla dash e alla flexariana. Lo rende noto la Coldiretti sulla base del best diet ranking 2021 elaborato dal media statunitense U.S. News & World Report, noto a livello globale per la redazione di classifiche e consigli per i consumatori.

Il primato generale della dieta mediterranea è stato ottenuto grazie al primo posto ottenuto in ben cinque specifiche categorie: prevenzione e cura del diabete, difesa del cuore, mangiare sano, componenti a base vegetale e facilità a seguirla.

A contendere la vittoria della dieta mediterranea sul podio sono state quella dash contro l’ipertensione che si classifica al secondo posto e la flexariana, un modo flessibile di alimentarsi, al quarto posto la storica dieta ipocalorica weight watchers e al quinto la dieta della Mayo Clinic basata su una piramide che incrocia abitudini alimentari e comportamenti quotidiani come mangiare davanti alla tv, non fare attività fisica, assumere troppi zuccheri.

Il riconoscimento come miglior regime alimentare al mondo arriva a poco più di dieci anni dall’iscrizione della dieta mediterranea nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco avvenuta il 16 novembre 2010, grazie a una virtuosa ed equilibrata lista di alimenti come pane, pasta, frutta, verdura, carne, olio extravergine e il tradizionale bicchiere di vino consumati a tavola in pasti regolari che ha consentito all’Italia di conquistare il record di longevità in Europa.

Proprio l’emergenza sanitaria ha provocato una svolta salutista nei consumatori che hanno privilegiato la scelta nel carrello di prodotti alleati del benessere sia in Italia che all’estero. Lungo la Penisola infatti si registra un aumento medio del 9,7% dei consumi nel 2020 dei prodotti simbolo della dieta mediterranea come olio extravergine d’oliva, frutta e verdura fino alla pasta, secondo l’analisi Coldiretti su dati Ismea. A guidare la classifica della spesa mediterranea in Italia è la frutta con un incremento degli acquisti dell’11%. Al secondo posto l’olio extravergine d’oliva dove i consumi aumentano del 9,7%, davanti a verdura, con una crescita del 9%, e pasta (+8.9%), grazie al boom fatto registrare da penne e spaghetti certificate fatte con grano 100% Made in Italy.

Ad essere avvantaggiate sono state nell’ordine le esportazioni nazionali di conserve di pomodoro (+17%), pasta (+16%), olio di oliva (+5%) e frutta e verdura (+5%) che hanno raggiunto in valore il massimo di sempre. Anche negli Stati Uniti nonostante l’attacco subito negli ultimi anni da parte di Donald Trump grande sponsor del fast food nel 2021 con il nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden e la first lady Jill Biden, di origini italiane, la dieta mediterranea, prototipo di stile di vita salutare, bilanciato e amico dell’ambiente, è tornata protagonista alla Casa Bianca. Non a caso Biden ha rimosso i dazi sui prodotti Made in Italy imposti dal suo predecessore, salvando le esportazioni di mezzo miliardo di euro di specialità tricolori.

Il primo posto nella classifica mondiale delle diete è anche una risposta ai bollini allarmistici e a semaforo fondati sui componenti nutrizionali che alcuni Paesi, dalla Gran Bretagna al Cile alla Francia, stanno applicando su diversi alimenti della dieta mediterranea sulla base dei contenuti in grassi, zuccheri o sale. “I sistemi di etichettatura nutriscore e a semaforo è fuorviante, discriminatorio e incompleto e finisce per escludere paradossalmente dalla dieta alimenti sani e naturali che da secoli sono presenti sulle tavole per favorire prodotti artificiali di cui in alcuni casi non è nota neanche la ricetta” afferma il presidente di Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “si rischia di promuovere cibi spazzatura con edulcoranti al posto dello zucchero e di sfavorire elisir di lunga vita come l’olio extravergine di oliva considerato il simbolo della dieta mediterranea, ma anche specialità come il Grana Padano, il Parmigiano Reggiano ed il prosciutto di Parma le cui semplici ricette non possono essere certo modificate”.

TOP FIVE DIETE NEL MONDO NEL 2021
1)      Mediterranea
2)      Dash contro l’ipertensione
3)      Flexariana, un modo flessibile di alimentarsi
4)      Weight watchers, ipocalorica
5)      Mayo Clinic che incrocia alimenti e comportamenti




Affitti e seconda ondata Covid: crollano i prezzi del breve termine, tiene il transitorio

Il clima di incertezza e l’emergenza pandemica hanno avuto un effetto molto deleterio sul comparto degli affitti brevi: al momento il prezzo medio degli affitti brevi si è ridotto del 7% mentre l’ occupancy del 54,3%, il tutto al netto del periodo di lockdown.

A registrare questi cambiamenti i dati di Hostmate, società specializzata in servizi dedicati ai proprietari di appartamenti..

Secondo fonti interne a Hostmate è prevista una ulteriore riduzione del 25% del numero di appartamenti a disposizione per gli affitti brevi sui principali portali dedicati.

Per quanto concerne l’affitto transitorio, quello superiori a 30gg, il prezzo al momento tiene, riducendosi solo del 5%, il tutto favorito dal cambio dell’abitudine dei consumatori (inquilini/turisti) e dalla possibilità di prenotare per periodi superiori a 30 giorni attraverso portali come Booking e Airbnb. Al momento il 70% del portafoglio in gestione da Hostmate risulta affittato attraverso questa formula.

L’aumento della volatilità di mercato, generato dalla pandemia da Covid-19, ha aumentato la necessità da parte dei proprietari immobiliari di perfezionare i propri modelli previsionali di guadagno per poter prendere decisioni strategiche sulla base di dati di mercato aggiornati alla situazione attuale.

Per rispondere a questo bisogno e permettere ai proprietari immobiliari di avere un quadro chiaro circa la migliore strategia di messa a reddito da adottare, Hostmate ha investito nel potenziamento dei propri tool di data & analytics lanciando l’Acceleratore Immobiliare.

Attraverso i propri strumenti di analisi, affiancati dall’esperienza diretta sul campo, l’azienda identifica la migliore strategia di messa a reddito degli immobili sulla base dell’andamento corrente di mercato. Il tutto unito con le competenze nella gestione operativa di portafogli di immobili che permette l’implementazione delle soluzioni in tempi brevi ed in continuità.

“I tool proprietari Hostmate – afferma Maurizio Sicuro, COO Hostmate – calcolano i guadagni attesi nell’arco dei prossimi 12 mesi in base a diverse soluzioni di messa a reddito: affitto breve, affitto transitorio e affitto lungo. In seguito, in base alla scelta del proprietario, Hostmate implementa la soluzione”.

 

 




Istat: ancora in aumento la spesa per il welfare locale

Per il quarto anno consecutivo la spesa dei comuni per i servizi sociali è in crescita, raggiungendo i livelli registrati negli anni precedenti la crisi del 2011-2013. 

Nel 2017, la spesa dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a circa 7 miliardi 234 milioni di euro, corrispondenti allo 0,41% del Pil nazionale (dati provvisori).

La spesa di cui beneficia mediamente un abitante in un anno è pari a 119 euro a livello nazionale, con differenze territoriali molto ampie. La spesa sociale del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia: 58 euro contro valori che superano i 115 euro annui in tutte le altre ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro. 

In ulteriore crescita la spesa sociale dei Comuni

Il comparto degli interventi e dei servizi socio-assistenziali, regolato principalmente dalla Legge quadro n.328 del 2000, è fortemente decentrato a livello locale. I Comuni e le associazioni sovracomunali gestiscono la spesa sociale attraverso un ventaglio di prestazioni variabile sul territorio.

Le Regioni hanno in capo funzioni di programmazione, con propri assetti normativi e organizzativi per l’offerta dei servizi socio-assistenziali. A livello centrale restano invece, ancora indeterminati, i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) previsti dalla stessa Legge quadro come standard minimo da garantire su tutto il territorio nazionale.

Rispetto alla media europea, l’Italia destina alla protezione socialei una quota importante del Prodotto interno lordo (il 29,1% contro il 27,9% della media Ue).

Sebbene la quota di spesa per i trasferimenti monetari e soprattutto per le pensioni di anzianità e vecchiaia (poco meno del 16% del Pil) sia elevata, il nostro paese si colloca invece tra quelli con i livelli più bassi di spesa per servizi sociali.

 

Nel 2017, la spesa dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a circa 7 miliardi 234 milioni di euro, pari allo 0,42% del Pil nazionale.

La spesa è aumentata del 2,5% sul 2016 (circa 177 milioni di euro). In termini pro capite, le risorse destinate alla rete territoriale di interventi e servizi sociali sono passate da 116 a 119 euro per abitante. Prosegue dunque la ripresa iniziata nel 2014, che ha riportato gradualmente la spesa sociale a livelli precedenti al declino registrato nel triennio 2011-2013.

I principali destinatari della spesa sociale dei Comuni per l’anno 2017 sono famiglie e minori, anziani e persone con disabilità che assorbono l’82% delle risorse impegnate. 

La spesa rimanente è dedicata per il 7,4% all’area Povertà e disagio adulti, il 4,8% ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, in minima parte (0,3%) a interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,5% alle attività generali e a una multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.). 

La spese rivolte ai diversi tipi di utenza hanno fatto registrare tassi d’incremento variabili. 

L’area Famiglie e minori ha avuto una crescita più contenuta (+1,1%) rispetto alla spesa complessiva (+2,5%). Continua ad aumentare la spesa per l’assistenza ai disabili (+4,1%), confermando l’andamento positivo registrato dall’avvio della rilevazione, ovvero dal 2004.

Le risorse destinate agli anziani, che per sei anni consecutivi a partire dal 2011 avevano subito un contenimento, crescono di circa 74 milioni di euro rispetto all’anno precedente (+4,7%).

Diminuiscono invece leggermente nell’ultimo anno (-0,1%) le spese per il contrasto alla povertà e per il disagio adulti, dopo un lieve incremento nel biennio precedente. 

Nell’ambito dei servizi rivolti agli immigrati, le spese restano sotto il 5% della spesa sociale dei Comuni, ma continuano a crescere con valori in linea con l’incremento della spesa totale (+2,7%). 

Più di un terzo della spesa totale per famiglie con figli e minori 

La quota più ampia della spesa sociale dei Comuni è assorbita dai servizi per i minori e le famiglie con figli: circa 2,8 miliardi di euro, pari al 38,2% della spesa complessiva.

Le regioni del Centro sono quelle che destinano maggiori quote di spesa a quest’area di utenza (43%), in particolare l’Umbria (51,1%) e il Lazio (45,2%).

Le risorse per i minori e le famiglie con figli aumentano decisamente in termini pro-capite, passando da 121 euro l’anno del 2010 a 141 nel 2017.

Tuttavia tale incremento è riconducibile in parte alla progressiva diminuzione della popolazione di riferimento, cioè i componenti delle famiglie con minori, mentre la spesa in valore assoluto ha subito un calo nel triennio 2012/2014 e non ha ancora recuperato del tutto il livello del 2010.

Oltre la metà della spesa è destinata alle strutture (53%), in particolare asili nido e altri servizi educativi per la prima infanzia (37%), comunali o privati convenzionati, che accolgono circa il 13,5% dei bambini con meno di 3 anni.

Un’altra importante voce di spesa (il 22%) riguarda le strutture residenziali comunali e le rette pagate dai Comuni per l’ospitalità offerta a bambini, adolescenti e donne con figli in Comunità educative e centri di accoglienza.

Tra gli altri interventi e i servizi rivolti alle famiglie e ai minori, il servizio sociale professionale raggiunge il maggior numero di utenti: 766 mila bambini e nuclei familiari in difficoltà presi in carico dagli assistenti sociali e indirizzati verso specifici percorsi di inclusione e supporto.

Continua a crescere la spesa per i servizi ai disabili 

Dal 2016 al 2017 aumenta ancora la spesa dei Comuni rivolta ai disabili (+4,1%). 

I Comuni italiani nel loro complesso hanno impiegato maggiori risorse per le persone con disabilità: da un miliardo e 23 milioni di euro nel 2003 si passa nel 2017 a circa un miliardo e 871 milioni di euro.

In termini pro capite, la spesa annua per una persona disabile residente in Italia è più che raddoppiata, passando da 1.478 a 3.140 euro; parallelamente aumenta il peso di questa area di utenza sul totale della spesa sociale dei Comuni: dal 19,7% del 2003 si passa al 25,9% del 2017, con punte del 36,7% nelle Isole e in particolare in Sardegna (45,9%).

La attenzione crescente dei Comuni verso i bisogni delle persone con disabilità è testimoniata anche dall’evoluzione delle forme assistenziali e dei sevizi, sempre più orientati a favorire l’autonomia personale e l’inclusione sociale degli utenti presi in carico, l’istruzione e l’inserimento lavorativo.

L’uso delle risorse ha consentito di sviluppare, accanto ai tradizionali strumenti di sostegno ai disabili e alle loro famiglie, quali i centri diurni e le strutture residenziali, un arricchimento della rete territoriale e la diffusione di servizi strategici per garantire alle persone con disabilità i diritti fondamentali, quali l’istruzione e l’inserimento nel mondo del lavoro. 

Dal 2003 al 2017, la spesa per l’assistenza domiciliare ai disabili è aumentata del 137%, quella per gli interventi educativo-assistenziali e per l’inserimento lavorativo del 117%.

All’interno di questo aggregato vi sono il sostegno socio-educativo scolastico, con cui i Comuni garantiscono la presenza nelle strutture scolastiche di figure di supporto ai bambini e ai ragazzi disabili (oltre 74 mila utenti l’anno), il sostegno socio-educativo domiciliare o presso strutture territoriali (circa 18 mila utenti l’anno) e il sostegno all’inserimento lavorativo (tirocini formativi, borse lavoro, bonus all’assunzione, ecc., con circa 29 mila utenti l’anno). 

Lo sviluppo di questi servizi, però, non è stato uniforme sul territorio nazionale. Ad esempio, nel 2017, il 76% dei Comuni del Nord-est offre il sostegno socio educativo scolastico per i bambini e i ragazzi disabili nelle scuole, nelle Isole soltanto il 40% dei Comuni ha attivato questo tipo di assistenza.

Aumenta la spesa sociale rivolta agli anziani

La spesa per i servizi sociali rivolti agli anziani ammonta a circa 1,3 miliardi di euro nel 2017. La quota sulla spesa sociale dei Comuni rappresenta il 17,9% del totale e raggiunge la quota più alta nel Nord-est (23%). 

Dopo una fase di decremento iniziato nel 2011, le risorse destinate agli anziani nel 2017 sono cresciute in un anno del 4,7%. In termini di spesa pro capite si è passati da 92 euro nel 2016 a 95 euro annui, con un aumento più consistente nelle regioni del Centro e del Nord-est, molto contenuto a Sud e una diminuzione nelle Isole e nel Nord-ovest.  

Le principali voci di spesa per l’area anziani riguardano le strutture residenziali, comunali o private convenzionate, che assorbono circa il 41% delle risorse. Risiede nelle strutture comunali o finanziate dai Comuni l’1,4% degli anziani residenti (+0,8% rispetto al 2016).

La seconda voce di spesa per i servizi sociali offerti agli anziani dai Comuni è l’assistenza domiciliare (35,6%) che ha come tipologia prevalente quella socio-assistenziale, e consiste nella cura e igiene della persona e nel supporto nella gestione dell’abitazione. 

In lieve diminuzione le risorse per il contrasto a povertà e disagio adulti

Nel periodo 2010-2017 la spesa dei Comuni per la povertà è diminuita del 5,6% a livello nazionale, sebbene dal 2015 si osservi una lieve ripresa. Le riduzioni di spesa si concentrano principalmente nelle regioni del Centro-sud e in Sicilia (sebbene la ripartizione delle Isole sia controbilanciata dall’aumento di spesa in Sardegna). 

A causa delle limitate risorse disponibili, i sistemi di welfare locali hanno svolto dunque una limitata funzione di compensazione dell’impatto della crisi sulle famiglie.

Quasi la metà della spesa comunale per la povertà e il disagio adulti riguarda i trasferimenti in denaro verso le famiglie: i più importanti sono quelli a integrazione del reddito familiare e i contributi economici per l’alloggio, con importi medi di circa 705 e 949 euro annui per utente, di cui beneficiano circa 147 mila e 48 mila famiglie l’anno rispettivamente. 

Circa un migliaio i Comuni che finanziano i centri antiviolenza 

A partire dalla rilevazione 2017, nell’area povertà, disagio adulti e senza dimora sono censiti due nuovi servizi: i centri antiviolenza, strutture che offrono servizi di ascolto e accoglienza per le donne vittime o esposte alla minaccia di ogni forma di violenza fisica e/o psicologica, e le case rifugio destinate a vittime di violenza di genere, strutture residenziali a indirizzo segreto, che forniscono alloggio sicuro e protezione alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini.

Le Case rifugio sono in stretto contatto con i Centri antiviolenza e gli altri servizi presenti sul territorio, al fine di garantire il necessario supporto psicologico, legale, sociale, educativo.

Nel 2017, la spesa dei Comuni destinata ai centri antiviolenza ammonta a circa 4,2 milioni, con una spesa media pari a 495 euro per utente. La spesa media per le donne ospiti delle case rifugio è di 4.945 euro, per un totale di 4 milioni di spesa.

Poco più di mille Comuni, pari al 13,2% del totale, hanno sostenuto una spesa per i centri antiviolenza, mentre sono meno di 300 (3,4%) quelli che offrono l’accoglienza in case rifugio o supportano finanziariamente tali strutture.

In totale, il 14,7% dei Comuni dichiara di aver sostenuto almeno un’attività di ascolto, accoglienza e protezione nei confronti delle vittime di violenza di genere.

regioni italiane ed è particolarmente rilevante in Sicilia. Infatti, negli anni successivi al 2014 sono state impiegate risorse aggiuntive provenienti dal “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati” (Sprar), che ha permesso ai Comuni e agli altri enti locali di realizzare progetti di accoglienza integrata attraverso i finanziamenti statali e dell’Unione europea. 

Il 46,5% della spesa sociale per quest’area di utenza è destinata alle strutture residenziali, gestite direttamente dai Comuni o affidate in gestione a soggetti esterni, oppure ai trasferimenti erogati per il pagamento delle rette in strutture private, di cui beneficiano circa 48 mila persone (una spesa media di 3.300 euro all’anno per utente).

Forti i divari territoriali della spesa sociale comunale

L’offerta dei servizi socio-assistenziali si caratterizza per un evidente divario fra Nord e Sud del Paese: più della metà della spesa è concentrata al Nord, dove risiede circa il 46% della popolazione, il restante 44% delle risorse è ripartito in misura variabile tra Centro e Mezzogiorno. I Comuni del Sud, dove risiede il 23% della popolazione italiana, erogano l’11% della spesa per i servizi sociali. 

In termini pro capite, la spesa sociale del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia: si tratta di 58 euro annui contro valori che superano i 115 in tutte le altre ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro.

Le differenze territoriali sono rilevanti per tutte le aree di utenza, con evidenti disparità a fronte degli stessi bisogni: in media una persona disabile residente al Nord-est usufruisce di servizi e interventi per una spesa annua di circa 5.222 euro, al Sud il valore dei servizi ricevuti è di circa 1.074 euro. 

All’interno di ogni ripartizione geografica i capoluoghi di provincia tendono a distinguersi dal resto dei Comuni per più alti livelli di spesa. I Comuni capoluogo nel loro complesso hanno una spesa media pro-capite di 174 euro l’anno, che si riduce drasticamente (del 45%) per l’insieme dei Comuni italiani non capoluogo (96 euro l’anno).

I differenziali di spesa sono rilevanti in quasi tutte le ripartizioni geografiche, in particolare al Centro e al Sud, dove i Comuni capoluogo spendono più del doppio rispetto al resto dell’area. Nelle Isole si riscontra invece una relativa uniformità di comportamento. 

Agli estremi della distribuzione si trovano dunque, da un lato i Comuni capoluogo del Nord-est, dove la spesa media pro-capite ammonta a 244 euro l’anno; dall’altro, i Comuni dell’hinterland del Sud Italia, con 45 euro l’anno di spesa per i servizi sociali. 

aumentano complessivamente dello 0,7% rispetto al 2016, ma mentre la Sicilia registra una crescita del 3,9%, in Sardegna si ha un calo del 2,5%.

Al Nord-est, la crescita di spesa sociale è dell’1,5% ma le differenze sono forti. Le Province Autonome di Bolzano e Trento, con una crescita di spesa del 15,5% e del 10,4%, rispettivamente, attenuano il calo del Veneto (-6,5%). Nel Nord-ovest, si ha una variazione negativa dell’1,9%. 

Le fonti di finanziamento: più della metà sono risorse dei Comuni 

La principale fonte di finanziamento della spesa sociale degli enti territoriali sono le risorse proprie dei Comuni e delle associazioni di Comuni (63,1%).

Seguono, in ordine di importanza, i fondi regionali (fondi provinciali nel caso di province autonome) vincolati per le politiche sociali, che finanziano il 17,7% della spesa sociale dei Comuni, il fondo indistinto per le politiche sociali (8,3%), i fondi vincolati statali o dell’Unione europea (6,9%), gli altri enti pubblici (2,7%) e i privati (1,3%). 

Sommando le quote relative al fondo indistinto per le politiche sociali e ai fondi statali o europei si deduce che solo il 15,2% della spesa impiegata per i servizi sociali risulta finanziata a livello centrale, mentre la maggior parte delle risorse provengono direttamente dai territori.

Nel corso degli anni, la spesa sociale dei Comuni singoli e associati ha subito variazioni in termini di fonti di finanziamento. In particolare, è diminuito il peso del fondo indistinto per le politiche sociali, dal 14% del 2010 all’8,3% del 2017.

Nelle regioni del Mezzogiorno, la quota finanziata con questo fondo è maggiore rispetto al Centro e al Nord, dove i Comuni basano maggiormente le politiche sociali sulle risorse proprie. Anche la percentuale di risorse derivanti dallo Stato o dall’Unione europea è più alta al Sud e nelle Isole rispetto al resto d’Italia.

Le province di Trento e Bolzano, nella loro autonomia, destinano quote elevate di risorse ai servizi socio-assistenziali.

Nella Provincia di Trento, dove il dato sulle fonti di finanziamento è disponibile, si rileva che l’83,1% dei finanziamenti deriva da fondi provinciali vincolati per le politiche sociali, il 9,9% da risorse proprie dei Comuni, l’l’1,6% da risorse degli enti associativi (Comunità di Valle) e meno del 5% dal fondo indistinto per le politiche sociali o da altri trasferimenti pubblici 




Cashback di Natale: costi, caratteristiche e domande da porsi

Il cashback di Natale è la misura ideata dal Governo per consentire ai cittadini italiani di recuperare il 10% di quanto speso con l’utilizzo di una carta di pagamento, fino a un massimo di 150 euro. SOStariffe.it ha analizzato i costi e le caratteristiche delle principali carte commercializzate in Italia nel mese di dicembre 2020, mettendo in evidenza i relativi vantaggi e svantaggi.

Tra le misure messe in atto dal Governo per combattere l’evasione fiscale, incentivando l’utilizzo dei pagamenti digitali, spicca il bonus cashback, in partenza dall’8 dicembre 2020, in via sperimentale, con il cosiddetto “cashback di Natale”. Il principio alla base di tale incentivo consiste nella possibilità di ricevere un rimborso pari al 10% degli acquisti effettuati, fino a un massimo di 150 euro, pagando con una carta di pagamento in sostituzione dei contanti.

Gli italiani sono noti per essere il popolo europeo a utilizzare meno le carte di pagamento elettroniche, alle quali, da sempre, preferiscono il contante, soprattutto in caso di cifre esigue. L’obiettivo del Governo è quello di fare in modo che gli strumenti di pagamento digitale vengano utilizzati con una frequenza maggiore, anche per le piccole transazioni.

Per andare incontro alle esigenze dei consumatori che non dispongono ancora di una carta di pagamento e che vorrebbero approfittare del cashback di Natale, SOStariffe.it ha preso in esame i costi e le caratteristiche delle migliori carte e messo a punto alcuni consigli su come scegliere la forma di pagamento digitale più adeguata rispetto ai propri bisogni.
Cosa considerare prima di scegliere una carta di pagamento digitale: 5 domande utili
Le carte di pagamento digitali non sono tutte uguali: per questo motivo è bene essere informati su quelle che sono le caratteristiche che le contraddistinguono in modo tale da essere orientati al meglio nella scelta. Una prima domanda che bisognerebbe porsi è relativa all’eventuale presenza di limiti di spesa, che si basa sull’analisi del plafond e di limiti giornalieri.

In secondo luogo, ci si dovrebbe chiedere quali sono i costi principali legati alla carta, in particolare quelli relativi alla sua emissione, al canone annuo e alle eventuali commissioni di ricarica. Si potrà poi valutare se attivare una carta di credito, che potrà essere a saldo o a rate, una carta di debito o una ricaricabile, chiamata anche carta prepagata.
Altri due elementi ai quali prestare grande attenzione sono la possibilità di utilizzare la carta dal proprio smartphone, e pagare in negozio con l’utilizzo delle app di pagamento, senza dover portare la carta con sé, e se sarà possibile gestire la carta da mobile, tramite l’utilizzo dell’home banking o del mobile banking.
I parametri dello studio condotto

Lo studio condotto da SOStariffe.it ha messo a confronto le condizioni contrattuali delle principali carte di pagamento disponibili in commercio nel mese di dicembre 2020 e per ognuna di esse ha tracciato quelli che sono i punti di forza e di debolezza.
Sono stati presi in considerazione il canone mensile, il contributo di attivazione, il prelievo presso l’ATM della stessa banca, e quello presso altre banche, all’estero in zona Ue e non Ue, oltre che i prelievi gratuiti inclusi nel singolo mese.

È stato incluso anche il costo delle commissioni presso i POS in Italia, Europa e negli Stati fuori dall’Europa, la massimale del prelievo e il plafond. A essere oggetto dello studio sono state le carte conto provviste di IBAN, le carte di credito a rate, le carte di credito a saldo, le carte di debito e le ricaricabili.

Le carte conto IBAN, ovvero le carte simili ai conti correnti
Il principale vantaggio legato all’utilizzo di una carta conto con IBAN è rappresentato delle funzionalità simili a quelle di un conto corrente. Essendo dotate di IBAN, queste carte consentono, ad esempio, di effettuare e ricevere bonifici, di domiciliare le utenze domestiche, di accreditare lo stipendio o la pensione.

Il canone mensile medio è pari a 3,71 euro, per l’attivazione sono necessari 0,91 centesimi, 0,41 per il prelievo presso l’ATM della stessa Banca e 0,60 per i prelievi all’estero in zona Ue, che sono pari a 1,86 euro (più una commissione dell’1,85%) in zona non Ue. Sono inclusi 5,5 prelievi gratuiti al mese.

Le commissioni per l’utilizzo del POS in Italia e in Europa sono assenti, mentre è previsto uno 0,69% in zona extra Ue. Il massimale del prelievo è pari a 442 euro, mentre il plafond raggiunge in media i 26.500 euro: si tratta del valore più alto fra tutti.
Nonostante le commissioni siano particolarmente ridotte o del tutto assenti, tra le debolezze di questa carta si possono annoverare i limiti bassi per il prelievo e i costi di gestione, che in alcuni casi possono essere elevati.

La differenza tra le carte di credito a rate e quelle a saldo
Le carte di credito possono essere a rate o a saldo: le prime convengono perché danno la possibilità di dilazionare le spese, mentre le seconde presentano plafond e vantaggi che possono essere personalizzati. Di contro, le carte di credito a rate possono prevedere tassi di interesse e commissioni elevati. Per le carte a saldo bisogna considerare commissioni elevate sul prelievo.

Il canone delle carte di credito a rate si aggira intorno ai 4,45 euro, mentre l’attivazione è pari a 3,18 euro circa. Sono previsti dei costi sui prelievi, che in Italia vanno da 1,38 euro con una commissione del 3,63%, mentre all’estero sono pari a 2,10 euro con una commissione del 3,79%. Sono inclusi 23 prelievi gratuiti al mese. Le commissioni per i pagamenti tramite POS sono presenti solo nei Paesi extra Ue e ammontano all’1,25%. Il massimale del prelievo è di 450 euro, mentre il plafond raggiunge i 2,687 euro.
Per quanto riguarda le carte di credito a saldo, invece, il canone mensile è più alto, ovvero pari a 6,23 euro, mentre l’attivazione è pari a 2 euro.

I prelievi in Italia sono pari a 1,38 euro e hanno un costo di commissione del 3,74%. In Europa si pagano 2,35 euro con commissioni del 3,74%, mentre in zona extra Ue i prelievi costano 2,90 euro, con commissioni del 2,81%. Sull’utilizzo del POS in zona extra Ue c’è una commissione dell’1,60%, il massimale del prelievo è di 637 euro, mentre il plafond ammonta a 4.056 euro.

I vantaggi e gli svantaggi delle carte prepagate
Le carte prepagate sono strumenti di pagamento molto interessanti, caratterizzate da un plafond di 11.588 euro e da un massimale del prelievo di 569 euro: possono essere attivate da tutti, anche dai minorenni e da chi non ha un conto corrente.

Il canone mensile è molto basso, pari a 0,41 centesimi, mentre per l’attivazione sono necessari 5,34 euro. Le commissioni per i prelievi vanno da 0,41 euro a 1,89 euro e sono maggiori nei Paesi extra Ue, nei quali è previsto un costo di 3,93 euro e una commissione dell’1,69%.

Sono inclusi 6 prelievi gratuiti al mese, mentre sui pagamenti con POS nei Paesi extra Ue viene applicata una commissione dell’1,47%. Tra gli svantaggi rientrano l’eventuale presenza di commissioni più elevate rispetto ad altri prodotti e l’assenza dell’IBAN.
Perché scegliere una carta di debito

Le carte di debito sono strumenti di pagamento digitali che prevedono costi di gestione e prelievo molto bassi, ma che devono essere collegate direttamente al conto corrente, quindi non possono essere attivate da tutti.

Il costo medio del canone è di 1,76 euro, mentre l’attivazione ammonta a 1,77 euro. I costi sui prelievi vanno da un minimo di 0,28 centesimi a un massimo di 2,27 euro, e quello delle commissioni per l’uso del POS in zona extra Ue è pari all’1,27%. Queste carte hanno in media un plafond di 5.679 euro e un massimale del prelievo di 1.368 euro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Bonus Internet, più risorse al Sud e fino ad un anno di connessione Internet casa gratuita 

Dalla fine del mese di ottobre, gli operatori di telefonia potranno iniziare a proporre le prime offerte riservate alle famiglie che rientrano nei requisiti del nuovo Bonus Internet.

La nuova agevolazione permette di accedere ad un voucher da utilizzare per coprire i costi di un nuovo abbonamento per la connessione Internet casa in grado di garantire una velocità massima di almeno 30 Mbps. 

Il Bonus Internet per le famiglie italiane si articolerà in due fasi, denominante rispettivamente Fase 1 e Fase 2. Per ogni fase sono previsti requisiti specifici per l’accesso. Ogni fase, inoltre, prevede un importo massimo del voucher (500 Euro per la Fase 1 e 200 Euro per la Fase 2). Le famiglie che rientrano nella Fase 1 potranno utilizzare parte del voucher anche per ottenere un PC o un tablet.

Il voucher previsto dal Bonus Internet può essere utilizzato esclusivamente per attivare offerte specifiche proposte dagli operatori di telefonia che richiederanno l’accredito ad Infratel. Per chiarire tutti gli aspetti legati al funzionamento della nuova agevolazione, SOStariffe.it ha analizzato le caratteristiche del Bonus Internet, i requisiti per l’accesso e la suddivisione dei fondi. 

La seconda parte dell’indagine include una simulazione legata all’utilizzo del Bonus PC con le attuali offerte Internet casa. Il voucher previsto dall’agevolazione, come evidenziato dai risultati, può coprire diversi mesi di abbonamento Internet. Il bonus relativo alla Fase 1 può garantire sino ad un anno di connessione gratuita. 

I requisiti del Bonus Internet

L’accesso al Bonus Internet prevede alcuni requisiti ben precisi. Per quanto riguarda la Fase 1, l’accesso al voucher da 500 Euro è condizionato alla presenza di un ISEE inferiore a 20.000 Euro per il proprio nucleo familiare. Per la Fase 2, invece, la soglia per l’accesso al Bonus sale sino a 50.000 Euro. 

Per poter ottenere l’agevolazione, inoltre, è necessario attivare un nuovo abbonamento Internet casa in grado di garantire una velocità in download di almeno 30 Mbps (banda minima garantita di 15 Mbps) e una velocità in upload di almeno 15 Mbps (banda minima garantita di 7,5 Mbps).

Le famiglie che hanno già una connessione di questo tipo potranno accedere al bonus esclusivamente attivando un nuovo abbonamento che prevede l’accesso ad Internet tramite fibra ottica con velocità di 1 Gbps in download.

Le famiglie che rientrano nella Fase 1 del Bonus Internet, contestualmente alla sottoscrizione di un nuovo abbonamento Internet, potranno acquistare un PC o un tablet direttamente dall’operatore utilizzando parte del voucher ottenuto. 

Non tutti i modelli sono acquistabili con il voucher. PC e tablet devono rispettare precisi requisiti, stabiliti da Infratel, per poter essere inclusi nelle offerte.  Il dispositivo ottenuto diventerà di proprietà dell’utente trascorsi 12 mesi dall’attivazione del contratto. 

La suddivisione dei fondi: al Sud il maggior numero di aventi diritto

I dati diffusi da Infratel in merito alla suddivisione dei fondi per il Bonus Internet confermano che la maggior parte dei voucher verrà indirizzata verso le regioni del Sud Italia. Quasi il 20% delle risorse disponibili su base nazionale è riservata alla Sicilia, con quasi 80 mila famiglie beneficiarie, mentre 18.6% riguarda la Campania, con quasi 75 mila famiglie che potranno richiedere il bonus. Al terzo posto troviamo la Puglia con circa il 14%.

La Lombardia ed il Lazio, le due regioni più popolose del Paese, riceveranno, rispettivamente, il 4.13% ed il 2.64% dei fondi totali previsti per il Bonus PC. In alcune regioni italiane (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Toscana), il Bonus PC sarà richiedibile da utenze ubicate solo in specifici comuni. L’elenco completo dei comuni verrà realizzato dopo specifiche convenzioni tra le singole regioni e Infratel. 

Come si richiede il voucher

Il Bonus PC, sia per la Fase 1 che per la Fase 2, può essere richiesto esclusivamente tramite gli operatori di telefonia accreditati. È compito dei provider presentare offerte specifiche (abbonamento Internet + PC/Tablet per la Fase 1, solo abbonamento Internet per la Fase 2) che gli utenti potranno valutare per utilizzare il voucher. 

La richiesta di utilizzare il voucher va presentata direttamente all’operatore di telefonia. Per l’accesso al bonus è necessario presentare l’apposito modulo di domanda, la certificazione ISEE, un proprio documento di identità e il codice fiscale. Se disponibile, alla richiesta va allegata una copia dell’abbonamento Internet già attivo. 

L’importo del Bonus Internet (500 o 200 Euro) viene erogato come sconto da applicare al canone d’abbonamento ed al costo di attivazione della connessione Internet e al costo del PC/Tablet (per la sola Fase 1). Per quanto riguarda la Fase 1, il voucher da 500 Euro segue una precisa suddivisione. 

Per l’abbonamento Internet (della durata di almeno un anno) è necessario utilizzare da un minimo di 200 Euro ad un massimo di 400 Euro. Per il PC/Tablet, invece, la somma da spendere deve essere compresa tra 100 e 300 Euro. La combinazione dei due importi può raggiungere un massimo di 500 Euro. 

La simulazione di SOStariffe.it: il bonus può coprire il costo di un anno di abbonamento

Il Bonus Internet può coprire buona parte dei costi (canone + attivazione) del primo anno di un abbonamento Internet, almeno considerando le offerte Internet casa disponibili ad ottobre 2020. Andando ad analizzare le attuali tariffe Internet casa proposte dagli operatori di telefonia fissa, infatti, per il primo anno viene richiesto un importo medio di 386 Euro tra canone e attivazione. 

Il voucher della Fase 1, che per la connessione può raggiungere un importo massimo di 400 Euro, può arrivare ad azzerare i costi del primo anno di un nuovo abbonamento Internet con velocità massima in download non inferiore a 30 Mbps. Con il voucher della Fase 2, invece, è possibile coprire poco più del 50% del costo medio del primo anno, azzerando il costo dei primi sei mesi della bolletta. 

Gli utenti che non rientrano nei requisiti previsti dal Bonus Internet hanno la possibilità di ridurre al minimo il costo del proprio abbonamento Internet, massimizzando contestualmente la velocità di connessione, sfruttando una delle migliori tariffe presenti sul mercato di telefonia fissa.