Con tasse Europee, ogni famiglia italiana risparmierebbe 1.500 euro all’anno

Se potessimo contare su una pressione fiscale pari a quella media europea, ogni famiglia italiana risparmierebbe 1.506 euro di tasse all’anno. La CGIA è giunta a questo risultato comparando la pressione fiscale di tutti i 28 paesi dell’UE.

Dopodiché, ha calcolato quanto pagherebbe in più o in meno di tasse una famiglia media italiana1 se subisse la pressione fiscale del paese europeo oggetto del confronto. Avendo registrato una pressione fiscale superiore di 2,2 punti percentuali rispetto al dato medio dell’Unione, nel 2019 ogni famiglia italiana avrebbe risparmiato 1.506 euro.

Nella manovra 2021 è necessario un taglio da 20 miliardi Afferma il coordinatore dell’Ufficio studi CGIA, Paolo Zabeo: “Con la prossima legge di Bilancio è necessario un intervento choc che nel giro di qualche anno riduca di almeno 3-4 punti percentuali la pressione fiscale.

Chi ritiene che siano sufficienti solo 10 miliardi si sbaglia di grosso: questa cifra è insufficiente. Per il 2021 è necessaria una contrazione di almeno 20 miliardi di euro e questo obbiettivo potrà essere raggiunto solo se si riuscirà ad abbassare, di pari importo, la spesa pubblica improduttiva e una parte delle agevolazioni fiscali. Compiere questa operazione, comunque, non sarà per niente facile. Negli ultimi 10 anni, infatti, la spending review non ha prodotto risultati apprezzabili, mentre il numero delle deduzioni e delle detrazioni fiscali è aumentato a dismisura, soprattutto in questo periodo di Covid”.

Secondo l’Istat, nel 2019 era composta da 2,3 componenti

 Paghiamo tanto per avere pochi servizi

Un peso tributario eccessivo come quello presente nel nostro Paese costituisce un problema sia perché alleggerisce la disponibilità economica di tante famiglie e di altrettante imprese sia perché drena risorse che altrimenti potrebbero essere investite per favorire i consumi, gli investimenti e, quindi, lo sviluppo del sistema economico.

Sottolinea il segretario della CGIA, Renato Mason: “Con un carico fiscale così eccessivo e una platea di servizi erogati dalla nostra Pubblica amministrazione che negli ultimi anni è scesa sia in termini di qualità che di quantità, questa situazione ha contribuito a determinare una contrazione della domanda interna e un crollo degli investimenti pubblici. Ma oltre a tagliare le tasse è altrettanto importante semplificare il nostro sistema fiscale. Pagare le imposte è diventato sempre più difficile: lo dicono gli esperti, come i commercialisti e i tecnici delle associazioni di categoria. Figuriamoci come la pensano i piccoli imprenditori che oltre a occuparsi della propria attività, spesso sono chiamati a misurarsi con una burocrazia fiscale astrusa e scriteriata che non ha eguali nel resto d’Europa”.

Quest’anno il peso fiscale è destinato a salire nuovamente Stando agli ultimi dati disponibili (media anno 2019), la pressione fiscale in Italia si è fermata al 42,4 per cento del Pil, in aumento rispetto al 2018 di 0,7 punti percentuali. Questo incremento è avvenuto dopo 5 anni di costante riduzione del carico fiscale. Dopo il picco massimo di tutti i tempi toccato nel 2013, il peso di tasse e contributi ha cominciato a scendere, in particolar modo con l’esecutivo guidato da Renzi che, tra le altre cose, ha eliminato l’Imu sulla prima casa e ha alleggerito il costo del lavoro dei neo assunti .

Cosa succederà quest’anno ?

Premesso che con la pubblicazione della Nota di aggiornamento al DEF prevista nei prossimi giorni avremo contezza della soglia ragiunta quest’anno, abbiamo l’impressione che la pressione fiscale sia destinata ad aumentare ulteriormente. Non tanto perché sono state ritoccate all’insù le aliquote, cosa che infatti non è avvenuta, ma perché registreremo una caduta verticale del Pil più significativa della contrazione registrata dalle entrate. Ricordiamo, infatti, che la pressione fiscale è data dalla somma delle entrate tributarie e di quelle contributive; il risultato di questa operazione deve poi essere rapportato al Pil e, successivamente, moltiplicato per 100.

Per pressione fiscale siamo al 6° posto in UE
Tra i 28 paesi che nel 2019 costituivano l’Unione europea, l’Italia si è classificata al sesto posto per quanto riguarda il peso della pressione fiscale in percentuale del Pil. La Danimarca presenta il carico fiscale più importante (47,6 per cento), seguono la Francia (47,3 per cento), il Belgio (45,5 per cento), la Svezia (43,5 per cento) e l’Austria (42,9 per cento). Il sesto posto di questa particolare graduatoria è occupato dall’Italia che nel 2019 ha registrato una pressione fiscale del 42,4 per cento. Se tra i nostri principali competitor la Germania presenta un peso fiscale complessivo del 41,6 per cento, il Regno Unito e la Spagna, entrambe con un carico fiscale complessivo del 35,2 per cento, possono addirittura contare su un differenziale di 7,2 punti di tasse in meno rispetto al nostro Paese

 Con le tasse di Spagna o Regno Unito, una famiglia italiana risparmierebbe quasi 5.000 euro all’anno

Se nel confronto con la pressione fiscale media dell’UE riferita all’anno scorso (40,2 per cento) una famiglia italiana avrebbe pagato 1.506 euro in meno di tasse, nella comparazione con il carico fiscale in capo alla Germania, invece, avrebbe risparmiato 548 euro, con quella dei Paesi Bassi il vantaggio sarebbe stato di 2.123 euro, con il Regno Unito e la Spagna avrebbe addirittura potuto beneficiare di una sforbiciata pari a 4.930 euro. Sempre tra i grandi paesi d’Europa, spicca il risultato che emerge dal raffronto con la Francia. Se in Italia avessimo la stessa pressione fiscale di Parigi (47,3 per cento), la famiglia media italiana pagherebbe 3.355 euro di tasse in più e addirittura 3.561 euro se il confronto venisse effettuato con la Danimarca, che è il paese con la pressione fiscale più alta di tutta Europa (47,6 per cento) Col Portogallo abbiamo il record di “oppressione” fiscale




Bonus Internet, più risorse al Sud e fino ad un anno di connessione Internet casa gratuita 

Dalla fine del mese di ottobre, gli operatori di telefonia potranno iniziare a proporre le prime offerte riservate alle famiglie che rientrano nei requisiti del nuovo Bonus Internet.

La nuova agevolazione permette di accedere ad un voucher da utilizzare per coprire i costi di un nuovo abbonamento per la connessione Internet casa in grado di garantire una velocità massima di almeno 30 Mbps. 

Il Bonus Internet per le famiglie italiane si articolerà in due fasi, denominante rispettivamente Fase 1 e Fase 2. Per ogni fase sono previsti requisiti specifici per l’accesso. Ogni fase, inoltre, prevede un importo massimo del voucher (500 Euro per la Fase 1 e 200 Euro per la Fase 2). Le famiglie che rientrano nella Fase 1 potranno utilizzare parte del voucher anche per ottenere un PC o un tablet.

Il voucher previsto dal Bonus Internet può essere utilizzato esclusivamente per attivare offerte specifiche proposte dagli operatori di telefonia che richiederanno l’accredito ad Infratel. Per chiarire tutti gli aspetti legati al funzionamento della nuova agevolazione, SOStariffe.it ha analizzato le caratteristiche del Bonus Internet, i requisiti per l’accesso e la suddivisione dei fondi. 

La seconda parte dell’indagine include una simulazione legata all’utilizzo del Bonus PC con le attuali offerte Internet casa. Il voucher previsto dall’agevolazione, come evidenziato dai risultati, può coprire diversi mesi di abbonamento Internet. Il bonus relativo alla Fase 1 può garantire sino ad un anno di connessione gratuita. 

I requisiti del Bonus Internet

L’accesso al Bonus Internet prevede alcuni requisiti ben precisi. Per quanto riguarda la Fase 1, l’accesso al voucher da 500 Euro è condizionato alla presenza di un ISEE inferiore a 20.000 Euro per il proprio nucleo familiare. Per la Fase 2, invece, la soglia per l’accesso al Bonus sale sino a 50.000 Euro. 

Per poter ottenere l’agevolazione, inoltre, è necessario attivare un nuovo abbonamento Internet casa in grado di garantire una velocità in download di almeno 30 Mbps (banda minima garantita di 15 Mbps) e una velocità in upload di almeno 15 Mbps (banda minima garantita di 7,5 Mbps).

Le famiglie che hanno già una connessione di questo tipo potranno accedere al bonus esclusivamente attivando un nuovo abbonamento che prevede l’accesso ad Internet tramite fibra ottica con velocità di 1 Gbps in download.

Le famiglie che rientrano nella Fase 1 del Bonus Internet, contestualmente alla sottoscrizione di un nuovo abbonamento Internet, potranno acquistare un PC o un tablet direttamente dall’operatore utilizzando parte del voucher ottenuto. 

Non tutti i modelli sono acquistabili con il voucher. PC e tablet devono rispettare precisi requisiti, stabiliti da Infratel, per poter essere inclusi nelle offerte.  Il dispositivo ottenuto diventerà di proprietà dell’utente trascorsi 12 mesi dall’attivazione del contratto. 

La suddivisione dei fondi: al Sud il maggior numero di aventi diritto

I dati diffusi da Infratel in merito alla suddivisione dei fondi per il Bonus Internet confermano che la maggior parte dei voucher verrà indirizzata verso le regioni del Sud Italia. Quasi il 20% delle risorse disponibili su base nazionale è riservata alla Sicilia, con quasi 80 mila famiglie beneficiarie, mentre 18.6% riguarda la Campania, con quasi 75 mila famiglie che potranno richiedere il bonus. Al terzo posto troviamo la Puglia con circa il 14%.

La Lombardia ed il Lazio, le due regioni più popolose del Paese, riceveranno, rispettivamente, il 4.13% ed il 2.64% dei fondi totali previsti per il Bonus PC. In alcune regioni italiane (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Toscana), il Bonus PC sarà richiedibile da utenze ubicate solo in specifici comuni. L’elenco completo dei comuni verrà realizzato dopo specifiche convenzioni tra le singole regioni e Infratel. 

Come si richiede il voucher

Il Bonus PC, sia per la Fase 1 che per la Fase 2, può essere richiesto esclusivamente tramite gli operatori di telefonia accreditati. È compito dei provider presentare offerte specifiche (abbonamento Internet + PC/Tablet per la Fase 1, solo abbonamento Internet per la Fase 2) che gli utenti potranno valutare per utilizzare il voucher. 

La richiesta di utilizzare il voucher va presentata direttamente all’operatore di telefonia. Per l’accesso al bonus è necessario presentare l’apposito modulo di domanda, la certificazione ISEE, un proprio documento di identità e il codice fiscale. Se disponibile, alla richiesta va allegata una copia dell’abbonamento Internet già attivo. 

L’importo del Bonus Internet (500 o 200 Euro) viene erogato come sconto da applicare al canone d’abbonamento ed al costo di attivazione della connessione Internet e al costo del PC/Tablet (per la sola Fase 1). Per quanto riguarda la Fase 1, il voucher da 500 Euro segue una precisa suddivisione. 

Per l’abbonamento Internet (della durata di almeno un anno) è necessario utilizzare da un minimo di 200 Euro ad un massimo di 400 Euro. Per il PC/Tablet, invece, la somma da spendere deve essere compresa tra 100 e 300 Euro. La combinazione dei due importi può raggiungere un massimo di 500 Euro. 

La simulazione di SOStariffe.it: il bonus può coprire il costo di un anno di abbonamento

Il Bonus Internet può coprire buona parte dei costi (canone + attivazione) del primo anno di un abbonamento Internet, almeno considerando le offerte Internet casa disponibili ad ottobre 2020. Andando ad analizzare le attuali tariffe Internet casa proposte dagli operatori di telefonia fissa, infatti, per il primo anno viene richiesto un importo medio di 386 Euro tra canone e attivazione. 

Il voucher della Fase 1, che per la connessione può raggiungere un importo massimo di 400 Euro, può arrivare ad azzerare i costi del primo anno di un nuovo abbonamento Internet con velocità massima in download non inferiore a 30 Mbps. Con il voucher della Fase 2, invece, è possibile coprire poco più del 50% del costo medio del primo anno, azzerando il costo dei primi sei mesi della bolletta. 

Gli utenti che non rientrano nei requisiti previsti dal Bonus Internet hanno la possibilità di ridurre al minimo il costo del proprio abbonamento Internet, massimizzando contestualmente la velocità di connessione, sfruttando una delle migliori tariffe presenti sul mercato di telefonia fissa.




Coronavirus, 2918 decessi in una settimana, terapie intensive sopra soglia saturazione in 11 Regioni

Il monitoraggio indipendente della Fondazione GIMBE conferma nella settimana 4-10 novembre, rispetto alla precedente, l’incremento nel trend dei nuovi casi (235.634 vs 195.051), sia per il lieve aumento dei casi testati (872.026 vs 817.717), sia per l’incremento del rapporto positivi/casi testati (27% vs 23,9%) .

Crescono del 41,1% i casi attualmente positivi (590.110 vs 418.142) e, sul fronte degli ospedali, si registra un ulteriore aumento dei pazienti ricoverati con sintomi (28.633 vs 21.114) e in terapia intensiva (2.971 vs 2.225); incrementano del 70% i decessi (2.918 vs 1.712). In dettaglio, rispetto alla settimana precedente, si registrano le seguenti variazioni:

  • Decessi: 2.918 (+70,4%)
  • Terapia intensiva: +746 (+33,5%)
  • Ricoverati con sintomi: +7.519 (+35,6%)
  • Nuovi casi: 235.634 (+31%)
  • Casi attualmente positivi: +171.968 (+41,1%)
  • Casi testati +54.309 (+6,6%)
  • Tamponi totali: +121.410 (+9,1%)

«Nell’ultima settimana – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – si conferma l’incremento di oltre il 40% dei casi attualmente positivi che si riflette sul numero dei pazienti ricoverati con sintomi e in terapia intensiva, con gli ospedali sempre più vicini alla saturazione, oltre che sul numero di decessi, che nell’ultima settimana hanno superato quota 2.900».

Rispetto alla settimana precedente in quasi tutte le Regioni si rileva un lieve rallentamento dell’incremento percentuale dei casi che potrebbe dipendere sia dall’effetto delle misure di contenimento introdotte a fine ottobre, sia dalla saturazione della capacità di testing, visto che i casi attualmente positivi continuano ad aumentare ovunque. Destano particolare preoccupazione i tassi di occupazione ospedalieri: in 11 Regioni è stata superata la soglia di saturazione del 40% dei posti letto in area medica e in altre 11 Regioni quella del 30% per le terapie intensive (tabella).

Altro dato critico sulla gestione e sull’evoluzione dell’epidemia è il numero degli operatori sanitari contagiati dal momento che «negli ultimi 30 giorni – spiega il Presidente – si sono verificati 19.217 contagi, rispetto ai 1.650 dei 30 giorni precedenti. Oltre al rischio di focolai ospedalieri, in RSA e in ambienti protetti, preoccupa l’impatto sul personale sanitario, già in carenza di organico oltre che provato dalla prima ondata» (figura 3).

Il monitoraggio GIMBE della seconda ondata è stato oggetto lo scorso 10 novembre di un’audizione presso la XII Commissione Affari Sociali della Camera, dove il Presidente ha innanzitutto ribadito la necessità di rendere disponibili in formato aperto, dettagliati e interoperabili tutti i dati, richiamando la campagna  #datiBeneComune. Quindi ha rilevato le criticità tecniche dell’attuale sistema di monitoraggio della pandemia che informa le scelte di Governo: dalla limitata tempestività – dovuta ai tempi di consolidamento dei dati e ai crescenti ritardi di notifica da parte delle Regioni – che favorisce la corsa del virus, alla qualità e completezza dei dati regionali, dalla complessità tecnica al peso eccessivo attribuito all’indice Rt.

«L’attribuzione dei colori alle Regioni – ha spiegato Cartabellotta – viene effettuata utilizzando due parametri principali: lo scenario identificato dai valori dell’indice Rt e la classificazione del rischio attraverso i 21 indicatori del DM 30 aprile 2020. Tuttavia, il valore di Rt è inappropriato per informare decisioni rapide perché, oltre ad essere stimato sui contagi di 2-3 settimane fa, presenta numerosi limiti». In particolare, Rt:

  • viene stimato solo sui casi sintomatici, circa 1/3 dei casi totali
  • si basa sulla data inizio sintomi che molte Regioni non comunicano per il 100% dei casi, determinando una sottostima dell’indice
  • è strettamente dipendente dalla qualità e tempestività dei dati inviati dalle Regioni
  • quando i casi sono pochi, rischia di sovrastimare la diffusione del contagio

«In questa fase di drammatica crescita dei contagi, rapida saturazione degli ospedali e impennata dei decessi – conclude Cartabellotta – il sistema di monitoraggio che informa le decisioni politiche secondo il DPCM del 3 novembre 2020 non è uno strumento decisionale adeguato. È tecnicamente complesso, soggetto a numerosi “passaggi” istituzionali, risente di varie stratificazioni normative, attribuisce un ruolo preponderante all’indice Rt che presenta numerosi limiti e, soprattutto, fotografa un quadro relativo a 2-3 settimane prima. Ovvero, usando lo specchietto retrovisore, invece del “binocolo, si rallenta la tempestività e l’entità delle misure per contenere la curva epidemica. Senza un immediato cambio di rotta sui criteri di valutazione e sulle corrispondenti restrizioni, solo un lockdown totale potrà evitare il collasso definitivo degli ospedali e l’eccesso di mortalità, anche nei pazienti non COVID-19».

 




Barometro Crif: il 2020 si apre con una crescita delle richieste di prestiti

Nel mese di gennaio il numero di interrogazioni registrate sul Sistema di Informazioni Creditizie di CRIF relativamente alle richieste di prestiti da parte delle famiglie italiane (nell’aggregato di prestiti personali e prestiti finalizzati) ha fatto segnare un +5,9% rispetto allo stesso mese del 2019.

Motore della performance positiva sono stati i prestiti personali (+9,7%), ma anche i prestiti finalizzati contribuiscono al risultato positivo, facendo segnare un +2,9%.
Andamento delle richieste di prestiti personali e finalizzati

L’ultima rilevazione fa però registrare una lieve frenata dell’importo medio richiesto, che nell’aggregato di prestiti personali e finalizzati risulta pari a 9.408 Euro (-2,7% rispetto allo stesso mese del 2019).

Entrando nel dettaglio, per quanto riguarda i prestiti finalizzati a gennaio il valore mediamente richiesto è stato pari a 6.914 Euro (-0,4% rispetto a gennaio 2019), mentre per prestiti personali si è attestato a 12.415 Euro (-5,8%).

LA DISTRIBUZIONE PER CLASSE DI DURATA
L’analisi della distribuzione delle richieste di prestiti per durata del finanziamento conferma che anche nel mese di gennaio è la classe superiore ai 5 anni quella in cui complessivamente si sono concentrate le preferenze degli italiani, con una quota pari al 26,2% del totale. In crescita l’incidenza dei piani di rimborso inferiori ai 12 mesi, che passano dal 15,8% del 2019 al 16,4%.

Per quanto riguarda i prestiti finalizzati, la classe in cui si è concentrato il maggior numero di richieste è quella inferiore ai 12 mesi, con il 22,7% del totale, malgrado un calo di 2,4 punti percentuali, mentre le richieste di prestiti personali si orientano sempre di più verso piani di rimborso superiori ai 5 anni, che arrivano a spiegare il 44,0% del totale.

“In questa fase caratterizzata da una veloce evoluzione dei comportamenti della clientela retail, gli istituti di credito stanno ponendo una grande attenzione verso quello che tecnicamente viene definito ‘instant lending’, dove si saldano le tradizionali dottrine di valutazione del merito creditizio con i nuovi paradigmi del credito veloce derivanti dall’entrata in vigore della PSD2, la nuova normativa europea che ha aperto l’era dell’open banking – commenta Simone Capecchi, Executive Director di CRIF -. Questo sta obbligando gli operatori di settore ad attrezzarsi con soluzioni e processi in grado di rispondere in modo sempre più tempestivo ed efficace alle esigenze della clientela”.




Istat: ancora in aumento la spesa per il welfare locale

Per il quarto anno consecutivo la spesa dei comuni per i servizi sociali è in crescita, raggiungendo i livelli registrati negli anni precedenti la crisi del 2011-2013. 

Nel 2017, la spesa dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a circa 7 miliardi 234 milioni di euro, corrispondenti allo 0,41% del Pil nazionale (dati provvisori).

La spesa di cui beneficia mediamente un abitante in un anno è pari a 119 euro a livello nazionale, con differenze territoriali molto ampie. La spesa sociale del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia: 58 euro contro valori che superano i 115 euro annui in tutte le altre ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro. 

In ulteriore crescita la spesa sociale dei Comuni

Il comparto degli interventi e dei servizi socio-assistenziali, regolato principalmente dalla Legge quadro n.328 del 2000, è fortemente decentrato a livello locale. I Comuni e le associazioni sovracomunali gestiscono la spesa sociale attraverso un ventaglio di prestazioni variabile sul territorio.

Le Regioni hanno in capo funzioni di programmazione, con propri assetti normativi e organizzativi per l’offerta dei servizi socio-assistenziali. A livello centrale restano invece, ancora indeterminati, i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) previsti dalla stessa Legge quadro come standard minimo da garantire su tutto il territorio nazionale.

Rispetto alla media europea, l’Italia destina alla protezione socialei una quota importante del Prodotto interno lordo (il 29,1% contro il 27,9% della media Ue).

Sebbene la quota di spesa per i trasferimenti monetari e soprattutto per le pensioni di anzianità e vecchiaia (poco meno del 16% del Pil) sia elevata, il nostro paese si colloca invece tra quelli con i livelli più bassi di spesa per servizi sociali.

 

Nel 2017, la spesa dei Comuni per i servizi sociali, al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale, ammonta a circa 7 miliardi 234 milioni di euro, pari allo 0,42% del Pil nazionale.

La spesa è aumentata del 2,5% sul 2016 (circa 177 milioni di euro). In termini pro capite, le risorse destinate alla rete territoriale di interventi e servizi sociali sono passate da 116 a 119 euro per abitante. Prosegue dunque la ripresa iniziata nel 2014, che ha riportato gradualmente la spesa sociale a livelli precedenti al declino registrato nel triennio 2011-2013.

I principali destinatari della spesa sociale dei Comuni per l’anno 2017 sono famiglie e minori, anziani e persone con disabilità che assorbono l’82% delle risorse impegnate. 

La spesa rimanente è dedicata per il 7,4% all’area Povertà e disagio adulti, il 4,8% ai servizi per Immigrati, Rom, Sinti e Caminanti, in minima parte (0,3%) a interventi per le dipendenze da alcol e droga e il rimanente 5,5% alle attività generali e a una multiutenza (sportelli tematici, segretariato sociale, ecc.). 

La spese rivolte ai diversi tipi di utenza hanno fatto registrare tassi d’incremento variabili. 

L’area Famiglie e minori ha avuto una crescita più contenuta (+1,1%) rispetto alla spesa complessiva (+2,5%). Continua ad aumentare la spesa per l’assistenza ai disabili (+4,1%), confermando l’andamento positivo registrato dall’avvio della rilevazione, ovvero dal 2004.

Le risorse destinate agli anziani, che per sei anni consecutivi a partire dal 2011 avevano subito un contenimento, crescono di circa 74 milioni di euro rispetto all’anno precedente (+4,7%).

Diminuiscono invece leggermente nell’ultimo anno (-0,1%) le spese per il contrasto alla povertà e per il disagio adulti, dopo un lieve incremento nel biennio precedente. 

Nell’ambito dei servizi rivolti agli immigrati, le spese restano sotto il 5% della spesa sociale dei Comuni, ma continuano a crescere con valori in linea con l’incremento della spesa totale (+2,7%). 

Più di un terzo della spesa totale per famiglie con figli e minori 

La quota più ampia della spesa sociale dei Comuni è assorbita dai servizi per i minori e le famiglie con figli: circa 2,8 miliardi di euro, pari al 38,2% della spesa complessiva.

Le regioni del Centro sono quelle che destinano maggiori quote di spesa a quest’area di utenza (43%), in particolare l’Umbria (51,1%) e il Lazio (45,2%).

Le risorse per i minori e le famiglie con figli aumentano decisamente in termini pro-capite, passando da 121 euro l’anno del 2010 a 141 nel 2017.

Tuttavia tale incremento è riconducibile in parte alla progressiva diminuzione della popolazione di riferimento, cioè i componenti delle famiglie con minori, mentre la spesa in valore assoluto ha subito un calo nel triennio 2012/2014 e non ha ancora recuperato del tutto il livello del 2010.

Oltre la metà della spesa è destinata alle strutture (53%), in particolare asili nido e altri servizi educativi per la prima infanzia (37%), comunali o privati convenzionati, che accolgono circa il 13,5% dei bambini con meno di 3 anni.

Un’altra importante voce di spesa (il 22%) riguarda le strutture residenziali comunali e le rette pagate dai Comuni per l’ospitalità offerta a bambini, adolescenti e donne con figli in Comunità educative e centri di accoglienza.

Tra gli altri interventi e i servizi rivolti alle famiglie e ai minori, il servizio sociale professionale raggiunge il maggior numero di utenti: 766 mila bambini e nuclei familiari in difficoltà presi in carico dagli assistenti sociali e indirizzati verso specifici percorsi di inclusione e supporto.

Continua a crescere la spesa per i servizi ai disabili 

Dal 2016 al 2017 aumenta ancora la spesa dei Comuni rivolta ai disabili (+4,1%). 

I Comuni italiani nel loro complesso hanno impiegato maggiori risorse per le persone con disabilità: da un miliardo e 23 milioni di euro nel 2003 si passa nel 2017 a circa un miliardo e 871 milioni di euro.

In termini pro capite, la spesa annua per una persona disabile residente in Italia è più che raddoppiata, passando da 1.478 a 3.140 euro; parallelamente aumenta il peso di questa area di utenza sul totale della spesa sociale dei Comuni: dal 19,7% del 2003 si passa al 25,9% del 2017, con punte del 36,7% nelle Isole e in particolare in Sardegna (45,9%).

La attenzione crescente dei Comuni verso i bisogni delle persone con disabilità è testimoniata anche dall’evoluzione delle forme assistenziali e dei sevizi, sempre più orientati a favorire l’autonomia personale e l’inclusione sociale degli utenti presi in carico, l’istruzione e l’inserimento lavorativo.

L’uso delle risorse ha consentito di sviluppare, accanto ai tradizionali strumenti di sostegno ai disabili e alle loro famiglie, quali i centri diurni e le strutture residenziali, un arricchimento della rete territoriale e la diffusione di servizi strategici per garantire alle persone con disabilità i diritti fondamentali, quali l’istruzione e l’inserimento nel mondo del lavoro. 

Dal 2003 al 2017, la spesa per l’assistenza domiciliare ai disabili è aumentata del 137%, quella per gli interventi educativo-assistenziali e per l’inserimento lavorativo del 117%.

All’interno di questo aggregato vi sono il sostegno socio-educativo scolastico, con cui i Comuni garantiscono la presenza nelle strutture scolastiche di figure di supporto ai bambini e ai ragazzi disabili (oltre 74 mila utenti l’anno), il sostegno socio-educativo domiciliare o presso strutture territoriali (circa 18 mila utenti l’anno) e il sostegno all’inserimento lavorativo (tirocini formativi, borse lavoro, bonus all’assunzione, ecc., con circa 29 mila utenti l’anno). 

Lo sviluppo di questi servizi, però, non è stato uniforme sul territorio nazionale. Ad esempio, nel 2017, il 76% dei Comuni del Nord-est offre il sostegno socio educativo scolastico per i bambini e i ragazzi disabili nelle scuole, nelle Isole soltanto il 40% dei Comuni ha attivato questo tipo di assistenza.

Aumenta la spesa sociale rivolta agli anziani

La spesa per i servizi sociali rivolti agli anziani ammonta a circa 1,3 miliardi di euro nel 2017. La quota sulla spesa sociale dei Comuni rappresenta il 17,9% del totale e raggiunge la quota più alta nel Nord-est (23%). 

Dopo una fase di decremento iniziato nel 2011, le risorse destinate agli anziani nel 2017 sono cresciute in un anno del 4,7%. In termini di spesa pro capite si è passati da 92 euro nel 2016 a 95 euro annui, con un aumento più consistente nelle regioni del Centro e del Nord-est, molto contenuto a Sud e una diminuzione nelle Isole e nel Nord-ovest.  

Le principali voci di spesa per l’area anziani riguardano le strutture residenziali, comunali o private convenzionate, che assorbono circa il 41% delle risorse. Risiede nelle strutture comunali o finanziate dai Comuni l’1,4% degli anziani residenti (+0,8% rispetto al 2016).

La seconda voce di spesa per i servizi sociali offerti agli anziani dai Comuni è l’assistenza domiciliare (35,6%) che ha come tipologia prevalente quella socio-assistenziale, e consiste nella cura e igiene della persona e nel supporto nella gestione dell’abitazione. 

In lieve diminuzione le risorse per il contrasto a povertà e disagio adulti

Nel periodo 2010-2017 la spesa dei Comuni per la povertà è diminuita del 5,6% a livello nazionale, sebbene dal 2015 si osservi una lieve ripresa. Le riduzioni di spesa si concentrano principalmente nelle regioni del Centro-sud e in Sicilia (sebbene la ripartizione delle Isole sia controbilanciata dall’aumento di spesa in Sardegna). 

A causa delle limitate risorse disponibili, i sistemi di welfare locali hanno svolto dunque una limitata funzione di compensazione dell’impatto della crisi sulle famiglie.

Quasi la metà della spesa comunale per la povertà e il disagio adulti riguarda i trasferimenti in denaro verso le famiglie: i più importanti sono quelli a integrazione del reddito familiare e i contributi economici per l’alloggio, con importi medi di circa 705 e 949 euro annui per utente, di cui beneficiano circa 147 mila e 48 mila famiglie l’anno rispettivamente. 

Circa un migliaio i Comuni che finanziano i centri antiviolenza 

A partire dalla rilevazione 2017, nell’area povertà, disagio adulti e senza dimora sono censiti due nuovi servizi: i centri antiviolenza, strutture che offrono servizi di ascolto e accoglienza per le donne vittime o esposte alla minaccia di ogni forma di violenza fisica e/o psicologica, e le case rifugio destinate a vittime di violenza di genere, strutture residenziali a indirizzo segreto, che forniscono alloggio sicuro e protezione alle donne che subiscono violenza e ai loro bambini.

Le Case rifugio sono in stretto contatto con i Centri antiviolenza e gli altri servizi presenti sul territorio, al fine di garantire il necessario supporto psicologico, legale, sociale, educativo.

Nel 2017, la spesa dei Comuni destinata ai centri antiviolenza ammonta a circa 4,2 milioni, con una spesa media pari a 495 euro per utente. La spesa media per le donne ospiti delle case rifugio è di 4.945 euro, per un totale di 4 milioni di spesa.

Poco più di mille Comuni, pari al 13,2% del totale, hanno sostenuto una spesa per i centri antiviolenza, mentre sono meno di 300 (3,4%) quelli che offrono l’accoglienza in case rifugio o supportano finanziariamente tali strutture.

In totale, il 14,7% dei Comuni dichiara di aver sostenuto almeno un’attività di ascolto, accoglienza e protezione nei confronti delle vittime di violenza di genere.

regioni italiane ed è particolarmente rilevante in Sicilia. Infatti, negli anni successivi al 2014 sono state impiegate risorse aggiuntive provenienti dal “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati” (Sprar), che ha permesso ai Comuni e agli altri enti locali di realizzare progetti di accoglienza integrata attraverso i finanziamenti statali e dell’Unione europea. 

Il 46,5% della spesa sociale per quest’area di utenza è destinata alle strutture residenziali, gestite direttamente dai Comuni o affidate in gestione a soggetti esterni, oppure ai trasferimenti erogati per il pagamento delle rette in strutture private, di cui beneficiano circa 48 mila persone (una spesa media di 3.300 euro all’anno per utente).

Forti i divari territoriali della spesa sociale comunale

L’offerta dei servizi socio-assistenziali si caratterizza per un evidente divario fra Nord e Sud del Paese: più della metà della spesa è concentrata al Nord, dove risiede circa il 46% della popolazione, il restante 44% delle risorse è ripartito in misura variabile tra Centro e Mezzogiorno. I Comuni del Sud, dove risiede il 23% della popolazione italiana, erogano l’11% della spesa per i servizi sociali. 

In termini pro capite, la spesa sociale del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia: si tratta di 58 euro annui contro valori che superano i 115 in tutte le altre ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro.

Le differenze territoriali sono rilevanti per tutte le aree di utenza, con evidenti disparità a fronte degli stessi bisogni: in media una persona disabile residente al Nord-est usufruisce di servizi e interventi per una spesa annua di circa 5.222 euro, al Sud il valore dei servizi ricevuti è di circa 1.074 euro. 

All’interno di ogni ripartizione geografica i capoluoghi di provincia tendono a distinguersi dal resto dei Comuni per più alti livelli di spesa. I Comuni capoluogo nel loro complesso hanno una spesa media pro-capite di 174 euro l’anno, che si riduce drasticamente (del 45%) per l’insieme dei Comuni italiani non capoluogo (96 euro l’anno).

I differenziali di spesa sono rilevanti in quasi tutte le ripartizioni geografiche, in particolare al Centro e al Sud, dove i Comuni capoluogo spendono più del doppio rispetto al resto dell’area. Nelle Isole si riscontra invece una relativa uniformità di comportamento. 

Agli estremi della distribuzione si trovano dunque, da un lato i Comuni capoluogo del Nord-est, dove la spesa media pro-capite ammonta a 244 euro l’anno; dall’altro, i Comuni dell’hinterland del Sud Italia, con 45 euro l’anno di spesa per i servizi sociali. 

aumentano complessivamente dello 0,7% rispetto al 2016, ma mentre la Sicilia registra una crescita del 3,9%, in Sardegna si ha un calo del 2,5%.

Al Nord-est, la crescita di spesa sociale è dell’1,5% ma le differenze sono forti. Le Province Autonome di Bolzano e Trento, con una crescita di spesa del 15,5% e del 10,4%, rispettivamente, attenuano il calo del Veneto (-6,5%). Nel Nord-ovest, si ha una variazione negativa dell’1,9%. 

Le fonti di finanziamento: più della metà sono risorse dei Comuni 

La principale fonte di finanziamento della spesa sociale degli enti territoriali sono le risorse proprie dei Comuni e delle associazioni di Comuni (63,1%).

Seguono, in ordine di importanza, i fondi regionali (fondi provinciali nel caso di province autonome) vincolati per le politiche sociali, che finanziano il 17,7% della spesa sociale dei Comuni, il fondo indistinto per le politiche sociali (8,3%), i fondi vincolati statali o dell’Unione europea (6,9%), gli altri enti pubblici (2,7%) e i privati (1,3%). 

Sommando le quote relative al fondo indistinto per le politiche sociali e ai fondi statali o europei si deduce che solo il 15,2% della spesa impiegata per i servizi sociali risulta finanziata a livello centrale, mentre la maggior parte delle risorse provengono direttamente dai territori.

Nel corso degli anni, la spesa sociale dei Comuni singoli e associati ha subito variazioni in termini di fonti di finanziamento. In particolare, è diminuito il peso del fondo indistinto per le politiche sociali, dal 14% del 2010 all’8,3% del 2017.

Nelle regioni del Mezzogiorno, la quota finanziata con questo fondo è maggiore rispetto al Centro e al Nord, dove i Comuni basano maggiormente le politiche sociali sulle risorse proprie. Anche la percentuale di risorse derivanti dallo Stato o dall’Unione europea è più alta al Sud e nelle Isole rispetto al resto d’Italia.

Le province di Trento e Bolzano, nella loro autonomia, destinano quote elevate di risorse ai servizi socio-assistenziali.

Nella Provincia di Trento, dove il dato sulle fonti di finanziamento è disponibile, si rileva che l’83,1% dei finanziamenti deriva da fondi provinciali vincolati per le politiche sociali, il 9,9% da risorse proprie dei Comuni, l’l’1,6% da risorse degli enti associativi (Comunità di Valle) e meno del 5% dal fondo indistinto per le politiche sociali o da altri trasferimenti pubblici 




Report, Istat: Digitalizzazione e tecnologia nelle imprese italiane

La prima edizione del Censimento permanente delle imprese, conclusa alla fine del 2019, ha permesso di approfondire anche tematiche emergenti e rilevanti per la competitività, la sostenibilità sociale e ambientale e la crescita economica del Paese.

Nel rapporto che viene diffuso oggi l’attenzione si focalizza su digitalizzazione/tecnologia/innovazione. La progressiva digitalizzazione dei processi aziendali viene adottata come chiave di lettura per una serie di fenomeni che stanno influenzando le strategie imprenditoriali come lo sviluppo di progetti di innovazione, l’emergere di nuovi modelli di business, la diffusione e l’utilizzo di nuove tecnologie e, infine, l’impatto della digitalizzazione sulla forza lavoro.

Riguardo la diffusione di tecnologie digitali, l’utilizzo di un insieme di indicatori è giustificato da almeno due motivazioni. In primo luogo, la digitalizzazione è un fenomeno complesso e multidimensionale, tale da essere comunemente misurato mediante batterie di indicatori in forma di scoreboard, oppure con indicatori sintetici.

In secondo luogo, a livello internazionale il quadro metodologico e definitorio è ancora parziale; in particolare, manca una esauriente definizione a fini statistici di cosa si intenda esattamente per digitalizzazione. Ciò rende necessaria l’identificazione di indicatori che, seppur parziali, siano complementari tra loro e legati da una chiave di lettura unitaria, in modo da evitare raccolte asistematiche di generici indicatori “digitali”.

Ad esempio, gli indicatori statistici disponibili – riferiti per lo più all’adozione e all’uso di tecnologie ICT – sono stati utilizzati per misurare la trasformazione digitale delle imprese semplicemente in relazione alla diffusione di alcune tecnologie o pratiche – come la connettività a banda larga o la pratica dell’e-commerce – senza analizzare le trasformazioni da esse indotte nei processi aziendali.

La pratica manageriale suggerisce che la trasformazione digitale è invece essenzialmente un processo di evoluzione dell’organizzazione e della cultura aziendale che mira a raggiungere la “maturità” digitale (digital maturity) delle imprese.

Nel censimento permanente il tema della digitalizzazione è stato quindi interpretato integrando il monitoraggio degli investimenti in tecnologie digitali di tipo infrastrutturale (connessione a Internet, acquisto di servizi cloud, ecc.) con l’individuazione di investimenti più specializzati che possano segnalare uno spostamento verso il pieno utilizzo delle risorse digitali disponibili (Big Data, applicazioni di Internet delle cose, stampa 3D, robotica, simulazione, ecc.). In tale prospettiva, per maturità digitale si intende l’investimento in infrastrutture digitali non come obiettivo a sé ma come condizione per ottimizzare i flussi informativi all’interno dell’impresa, con effetti positivi in termini di efficienza e competitività.

Tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative
Nel periodo 2016-2018 oltre tre quarti delle imprese con almeno 10 addetti (77,5%) hanno investito, o comunque utilizzato, almeno una delle 11 tecnologie individuate nel questionario del censimento come fattori chiave di digitalizzazione.

L’utilizzo congiunto di tali tecnologie – in particolare, di una combinazione tra infrastrutture digitali e tecnologie applicative – viene quindi proposto come indicatore sperimentale di maturità digitale.

La maggior parte delle imprese utilizza un numero limitato di tecnologie, dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali e, necessariamente, cyber-security) e lasciando eventualmente a una fase successiva l’adozione di tecnologie applicative.

Sinora, il grado di “digitalizzazione” delle imprese è stato misurato essenzialmente in termini di infrastrutturazione (accesso alla banda larga, numero di apparecchiature acquistate od utilizzate, ecc.) con il rischio che una rapida diffusione della capacità tecnica di utilizzo di strumenti digitali potesse dare l’impressione di una maturità digitale che, in realtà, esisteva solo potenzialmente.

 

L’utilizzo di infrastrutture digitali giunge a saturazione già tra le imprese meno digitalizzate (quelle con investimenti “soltanto” in 4 o 5 tecnologie), solo molto più lentamente si diffondono applicazioni più complesse e con maggiore impatto sui processi aziendali: appena il 16,6% delle imprese ha adottato almeno una tecnologia tra Internet delle cose, realtà aumentata o virtuale, analisi dei Big Data, automazione avanzata, simulazione e stampa 3D) .

Il processo di digitalizzazione delle imprese sembra distinto in due stadi o, in alcuni contesti più complessi, anche multistadio. Appare infatti evidente la necessità di costruire in una prima fase le condizioni tecniche e culturali per avviare il processo di digitalizzazione che si completa, in una seconda fase, con l’adozione di soluzioni applicative più utili ed efficaci per aumentare efficienza e produttività.

La chiave di lettura proposta è quella di superare un approccio quantitativo (maturità digitale = numero di tecnologie adottate) e di considerare come fattore chiave l’integrazione tra tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative in un’ottica di complementarietà delle varie soluzioni tecnologiche. Ovviamente, un limite di tale approccio è che non esiste un mix tecnologico da identificare come ideale ma, piuttosto, l’integrazione di diverse soluzioni tecnologiche deve assecondare la forte eterogeneità esistente nel settore delle imprese.

 

Il discrimine dimensionale nell’adozione di tecnologie digitali, ad esempio, è assai marcato. Ha effettuato investimenti digitali il 73,2% delle imprese con 10-19 addetti e il 97,1% di quelle con oltre 500 addetti. Meno significative sono le differenze territoriali: si passa dal 73,3% nel Mezzogiorno al 79,6% nel Nord-est.

A livello settoriale emerge il ruolo trainante dei servizi: le telecomunicazioni (94,2%), la ricerca e sviluppo, l’informatica, le attività ausiliarie della finanza, l’editoria e le assicurazioni hanno percentuali di imprese che investono in tecnologie digitali superiori al 90%. Il primo settore manifatturiero per investimenti digitali è la farmaceutica (94,1%), seguita a distanza dalla chimica (86,6%).

Il livello di maturità digitale delle imprese italiane
La base informativa offerta dal censimento consente di valutare come si distribuiscono tali imprese in relazione all’utilizzo combinato delle tecnologie. Una semplice analisi per classi latenti ha consentito di individuare quattro profili di impresa, definiti non tanto in base all’intensità dei loro investimenti digitali, quanto alla combinazione di diverse soluzioni tecnologiche interpretate come tra loro complementari .

 

Infine, il quarto gruppo è formato da imprese digitalmente “mature”, caratterizzate da un utilizzo integrato delle tecnologie disponibili, che sono un punto di riferimento per l’intero sistema delle imprese pur rappresentando solo il 3,8% del totale.

La presenza di tali gruppi di imprese è piuttosto omogena a livello settoriale, nel senso che la distribuzione non è molto diversa tra industria e servizi se non per il dato particolarmente elevato del 5,2% di imprese digitalmente “mature” nell’ambito dell’industria in senso ampio: un probabile effetto dei consistenti incentivi alla digitalizzazione resi disponibili a livello statale e regionale nel corso degli ultimi cinque anni.

 

La valutazione del grado di maturità digitale delle imprese italiane con 10 addetti e oltre può essere sintetizzata in quattro punti: circa tre quarti delle imprese sono impegnate in investimenti digitali (ma con prospettive di ulteriore diffusione di tali attività); le imprese sotto i 100 addetti sono prevalentemente coinvolte nella “costruzione” del loro peculiare modello di digitalizzazione; le imprese con oltre 100 addetti sono invece alle prese con la difficile “sperimentazione” di nuove soluzioni tecnologiche e organizzative; soltanto il 3,8% delle imprese (che valgono il 16,8% di addetti e il 22,7% di valore aggiunto) è già nella fase di maturità digitale; tale quota è decisamente più elevata nel Nord-ovest (4,7%), tra le imprese con oltre 500 addetti (23%) e nell’industria (5,2%).

Le soluzioni cloud: una vera tecnologia “abilitante”
Ѐ stato già osservato il ruolo degli investimenti in cyber-security e la loro caratteristica di interessare un numero crescente di imprese in parallelo all’intensificazione dei processi di digitalizzazione. Una tendenza non dissimile avviene per le soluzioni cloud, o servizi cloud, che garantiscono efficienza, economicità e sicurezza nella gestione di grandi quantità di dati e, più in generale, si propongono come condizione essenziale per la dematerializzazione dei processi aziendali. Passando dalle fasi esplorative alle fasi applicative della digitalizzazione, la probabilità di adottare soluzioni cloud aumenta dal 20% al 50% (Figura 3).

L’intensità applicativa è però ferma a un livello del 22,1% (pur corrispondente al 41,2% della forza lavoro e al 46,0% del valore aggiunto delle imprese con almeno 10 addetti), una condizione penalizzante nei confronti internazionali che segnala una debolezza infrastrutturale e rallenta di fatto i processi aziendali di digitalizzazione. Il motivo per cui governi e istituzioni di ricerca considerano essenziale la diffusione dei servizi cloud è perché si tratta di servizi che l’impresa può acquistare dall’esterno senza vincoli di localizzazione e dimensione.

Il cloud rende, in sintesi, possibile quella scalabilità delle attività digitali che è condizione essenziale per consentire, soprattutto alle imprese medio-piccole, di affrontare la sfida della trasformazione digitale senza immobilizzare ingenti risorse per l’acquisto di calcolatori, server per l’immagazzinamento dei dati e software applicativo. Una verifica del livello “qualitativo” dei servizi cloud acquistati dalle imprese italiane è stata svolta nell’ambito del censimento, esaminando per quali finalità le imprese italiane con 10 addetti e oltre utilizzano soluzioni cloud.

Le imprese utilizzano servizi cloud con modalità più strumentali che strategiche, in certa misura non dissimili da quelle delle famiglie. Tra le cinque tipologie di servizi considerate, la più diffusa è infatti quella della comunicazione, ovvero posta elettronica e messaggistica (66,1% delle imprese cui fa capo il 70% degli addetti e del valore aggiunto), che è ormai quasi totalmente gestita via cloud. Non meno ovvii sono gli utilizzi di servizi cloud per l’archiviazione dati (57,3%, 69,5% in termini di addetti) e per l’uso via Internet di software per ufficio (48,5% delle imprese, 60,7% degli addetti).

Meno frequenti le soluzioni più professionali e orientate al business, come l’uso da remoto di software gestionale (38,3% con prevalenza delle imprese più grandi: 50,3% in termini di addetti e 51,6% di valore aggiunto) e l’analisi dei dati aziendali in remoto che, sebbene limitata al 12,1% delle imprese (che pesano pur sempre per il 28,8% degli addetti e il 32% del valore aggiunto) indica un processo già avanzato di digitalizzazione dei dati aziendali.

Come si articola la digitalizzazione dei processi aziendali
Un’altra chiave di lettura del processo di digitalizzazione è offerta dallo studio del grado di utilizzo di software gestionale. In un contesto di progressiva dematerializzazione dei processi aziendali, le imprese devono dotarsi degli strumenti necessari a gestire i nuovi flussi informativi digitali con gradi crescenti di automazione delle procedure routinarie. In questo senso, l’adozione dei software gestionali da parte delle imprese può essere vista come un ulteriore indicatore, questa volta “orizzontale”, del grado di digitalizzazione di un’impresa.

L’orizzontalità può essere individuata con riferimento all’attività caratteristica della singola impresa che prevede tipicamente processi di input, gestione interna dei flussi materiali e immateriali, trasformazione e di output. Ciascuna fase del processo produttivo è soggetta a digitalizzazione con l’adozione di soluzioni (software) specifiche ma, evidentemente, solo con l’automazione di più fasi dell’intero processo produttivo si raggiunge un livello di maturità digitale che garantisce significativi guadagni di produttività.

Il livello base di automazione, a cui accede il 67,2% delle imprese (66,8% per le imprese con 10-19 addetti e 78,9% per le imprese con 500 e più addetti) è quello della gestione della documentazione aziendale. Questo è evidentemente anche il risultato di un contesto economico dove i partner dell’impresa – inclusa la pubblica amministrazione – richiedono in misura crescente comunicazioni in formato digitale. La necessità di archiviare efficacemente grandi quantità di documenti, ma anche la possibilità di gestire tali informazioni da remoto (ad esempio, con modalità di telelavoro), rendono spesso questi software i primi gestionali a cui accedono le imprese, anche piccole e medie.

Un’altra esigenza chiave delle imprese, soprattutto manifatturiere e di alcuni settori dei servizi, è quella della gestione del magazzino e dei flussi materiali in entrata e uscita dall’impresa. I software che gestiscono questa funzione sono utilizzati in media dal 50,7% delle imprese: tale quota scende al 45,4% considerando le imprese con 10-19 addetti e raggiunge il 72,7% tra quelle con 500 addetti e oltre.

Le esigenze legate alla gestione della “catena di distribuzione di un’impresa” sono poi fortemente differenziate a livello dimensionale e settoriale.
La terza categoria di applicazioni, anch’esse molto diffuse, include quelle che automatizzano la gestione della contabilità (e degli adempimenti fiscali). Il 47,9% delle imprese dichiara di affidarsi a tali soluzioni (41,4% tra le imprese con 10-19 addetti, 76,3% tra le grandi).

Il grado di adozione di queste applicazioni diminuisce con l’aumentare della complessità degli applicativi gestionali, ma soprattutto con la necessità di riorganizzare l’intera struttura dell’impresa per garantire che essi siano alimentati da corretti e costanti flussi informativi.

La gestione della produzione, sia nelle imprese manifatturiere che in quelle dei servizi, non è facilmente automatizzabile, anche adottando sofisticate soluzioni digitali, in quanto richiede che sia predisposta una complessa rete di sensori per consentire il monitoraggio in tempo reale di tutte le funzioni produttive. Infatti, accede a queste tecnologie solo il 33,7% delle imprese (26,7% delle piccole, 51% delle grandi e 58,5% tra le imprese manifatturiere).

Un altro esempio è la gestione sistematica delle relazioni con la clientela, su cui investono solo le imprese che hanno superato una determinata soglia in termini di numero di clienti, complessità dei beni e servizi offerti e intensità delle transazioni, e che operano su mercati fortemente competitivi.

In questo caso, le più adottate sono le già citate soluzioni CRM (Customer Relationship Management), che gestiscono funzioni interne ed esterne all’impresa e sono state scelte dal 33,0% delle imprese (31,4% tra le piccole, 51,5% tra le grandi).

Un livello più specialistico riguarda quelle applicazioni finalizzate ad automatizzare (o supportare) la pianificazione aziendale piuttosto che la vera e propria gestione operativa dell’impresa. Si tratta, da un lato, delle applicazioni per la pianificazione delle attività di produzione e, dall’altro, delle già citate soluzioni ERP (Enterprise Resource Planning) per la pianificazione dell’intera gestione aziendale (e che, in realtà, spesso incorporano diverse funzioni presenti anche nei software “specializzati” citati in precedenza). Il software per la pianificazione della produzione è presente nel 23,1% delle imprese (16,1% nelle piccole, 48,2% nelle grandi), quello per la pianificazione gestionale, o ERP, nel 21,7% (17% nelle piccole, 54,5% nelle grandi).

Anche se la presenza di software ERP indica un elevato grado di maturazione digitale di un’impresa, l’utilizzo di questo indicatore nei confronti internazionali risulta poco utile per valutare il grado di integrazione orizzontale dei processi oggetto di digitalizzazione, per cui sarebbe opportuno analizzare diverse tipologie di software gestionali e di pianificazione.
Riguardo l’integrazione “orizzontale” dei diversi software gestionali, si conferma il quadro già delineato .

Le imprese che adottano il loro primo software gestionale si orientano verso applicativi per la gestione documentale o la contabilità industriale, che sono evidentemente le esigenze percepite come più pressanti. In una fase ulteriore emerge la necessità di incrementare l’efficienza nella gestione della supply chain, ovvero delle relazioni con i fornitori e del magazzino.

La gestione del processo produttivo e delle relazioni con la clientela (CRM) trovano spazio solo a un livello di integrazione più elevato perché si tratta già di applicazioni interconnesse con il sistema informativo aziendale e non possono operare in isolamento (stand-alone). L’ultima fase di integrazione riguarda la pianificazione della produzione e della gestione (ERP), soluzioni che sono efficacemente adottate solo nel contesto di un’impresa digitalmente “matura” o, comunque, con una gestione avanzata dei flussi informativi interni.

 

Gli effetti percepiti della digitalizzazione
Dal momento che il censimento offre un’istantanea del processo di trasformazione digitale delle imprese italiane essenzialmente riferito all’anno 2018, eventuali valutazioni sull’impatto economico e sociale di tale processo dovranno essere rimandate al momento in cui sarà disponibile – con un necessario ritardo temporale

– una chiara evidenza quantitativa sui relativi effetti nel medio-lungo termine. D’altra parte, le imprese hanno già una percezione di come gli investimenti digitali stanno influenzando le loro attività – e, in particolare, la loro produttività – e tale percezione è stata oggetto di rilevazione nel censimento.

Sono stati considerati sette effetti principali (cinque positivi e due negativi) che la digitalizzazione potrebbe avere sulla produttività d’impresa.

In merito agli effetti positivi, il 65,6% delle imprese, con 10 addetti e oltre, che hanno adottato almeno una tecnologia digitale nel triennio 2016-2018 ritiene che il digitale abbia agevolato la condivisione di informazioni e conoscenze all’interno delle imprese (86% delle grandi imprese). Sono invece soltanto il 40,9% quelle che hanno verificato una relazione positiva tra digitalizzazione e incremento dell’efficienza dei processi produttivi (imprese manifatturiere 52,3%).

Inoltre appena il 17,3% delle imprese pensa che la digitalizzazione faciliti l’acquisizione di conoscenze dall’esterno e il 10,4% che renda possibile ottenere dall’esterno servizi, materie prime e semi-lavorati di migliore qualità. Irrilevante (3,8%) è infine la percentuale di imprese che ritengono la digitalizzazione utile per incrementare le opportunità di esternalizzazione di funzioni produttive.

Riguardo ai due fattori potenzialmente negativi, le imprese italiane considerano entrambi irrilevanti: solo l’1,7% delle rispondenti considera un rischio la perdita di efficienza o produttività dovuta alle criticità della transizione mentre lo 0,6% non ritiene rischiosa la perdita di efficienza o produttività determinata da investimenti eccessivi in digitale.

La percezione positiva degli effetti della digitalizzazione è legata anche al grado di intensità dell’investimento in tecnologie digitali (espresso in termini di numero di tecnologie adottate). Una lettura di tali effetti percepiti – basata sulla distinzione delle imprese nei quattro livelli di maturità digitale precedentemente descritti – conferma che il grado di digitalizzazione influisce direttamente sulla percezione delle imprese.

Anche in questo caso, si tratta in realtà di un diverso grado di apprezzamento positivo dei vantaggi di adottare tecnologie digitali, in quanto gli effetti negativi sono quasi irrilevanti. Ѐ comunque interessante notare che le imprese “sperimentatrici” hanno una percezione dei vantaggi della digitalizzazione assai simile a quella delle imprese digitalmente “mature”: un segnale dell’efficacia di tali tecnologie almeno per quanto riguarda la circolazione di conoscenza (inclusi dati e informazioni gestionali) all’interno e all’esterno dell’impresa.

 

Digitalizzazione e formazione del personale
Tra le varie sfide che ostacolano il processo di trasformazione digitale delle imprese è da considerare con particolare attenzione la necessità di preparare adeguatamente il personale per un utilizzo efficace delle nuove tecnologie. Il censimento ha indagato la questione con uno specifico quesito finalizzato a verificare una relazione diretta tra l’adozione di una specifica tecnologia digitale e la somministrazione di una altrettanto specifica formazione professionale.

Dai risultati censuari emerge con chiarezza che l’adozione di software gestionali rappresenta ancora una sfida per molte imprese: in media, circa il 40% di esse necessita di formare ad hoc il personale per il suo utilizzo (72,6% per le grandi imprese, dove si può ipotizzare l’adozione di software più complessi o che richiedono una maggiore disponibilità di dati per operare) .

Una formazione specifica per l’uso di Internet è ancora rilevante ma in un contesto in cui, almeno per le grandi imprese, si può assumere che il personale sia già largamente auto-formato.

Ovviamente, l’auto-formazione può riguardare lo svolgimento di funzioni come “utenti” di Internet mentre resta essenziale una specifica formazione professionale per le figure che gestiscono e mantengono le reti. Soprattutto le grandi imprese segnalano, piuttosto, una vera emergenza formativa in tema di cyber-security (52,9%) che è, in media, la terza tecnologia digitale che richiede supporto formativo. Infine, le piccole e medie imprese – che hanno bassi livelli di adozione di tecnologie digitali applicative – non considerano rilevante la formazione su applicazioni come la simulazione tra macchine interconnesse, l’automazione industriale, i Big Data, la stampa 3D, l’Internet delle Cose o le tecnologie immersive.

Ovviamente, c’è da tenere conto che tali tecnologie sono spesso adottate da imprese medio-piccole con il supporto esterno di società fornitrici di tecnologia o di consulenza, mediante pacchetti che includono assistenza e formazione del personale. Infatti, il ricorso alla formazione su tali tecnologie è più elevato tra le grandi imprese dove la maggior parte dei processi è internalizzata.

 

Gli investimenti futuri in digitalizzazione
Alla luce delle tendenze emerse con riferimento al triennio 2016-2018, e tenendo conto del contesto economico e sociale in rapida evoluzione, può essere di interesse esaminare quali erano, nella fase pre-Covid-19, le aspettative delle imprese relativamente ai loro investimenti in tecnologie digitali tra il 2019 e il 2021.

Una quota significativa di imprese dichiara di voler mantenere elevati gli investimenti infrastrutturali (connessione a Internet, cyber-security) mentre per le tecnologie applicative – pur tenendo conto del loro diverso grado di diffusione a livello settoriale – quelle che le hanno inserite nei propri progetti di sviluppo sono sistematicamente sotto il 10%, escluso l’Internet delle Cose .

A livello settoriale, a parte il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, non emergono aspettative di investimenti significativi concentrati in singoli comparti. Vi sono però alcuni casi di investimenti mirati, ad esempio l’automazione/robotica e la simulazione nel settore manifatturiero che arriva ad interessare il 16-17% delle imprese dell’intero comparto. In generale, però, anche prima della crisi COVID-19, le imprese italiane non mostravano di essere pronte a un cambio di passo nei processi di trasformazione digitale.

 

In generale, le imprese sembrano orientarsi verso aggiustamenti limitati dei propri progetti di sviluppo, almeno è ciò che emerge nell’analisi per dimensione d’impresa.

Ad esempio, la classe 10-19 addetti è divisa in due cluster: uno caratterizzato da incrementi attesi rilevanti, ma a partire da livelli di diffusione inferiori al 10% (si tratta prevalentemente di tecnologie applicative); l’altro, riferito a tecnologie infrastrutturali, mostra livelli di diffusione in media con le altre classi dimensionali ma incrementi attesi estremamente bassi.

Con leggere differenze, questo schema è valido per quasi tutte le classi di addetti determinando, come già osservato, una limitata dinamica a livello di sistema .

Un’eccezione merita però di essere segnalata. Con riferimento a tre tecnologie applicative chiave – Internet delle Cose, automazione e robotica e analisi dei Big Data – il 50% delle imprese appartenenti alle classi dimensionali 250-499 addetti e 500 e oltre dichiara l’intenzione di mantenere un elevato tasso di incremento anche in presenza di tassi di diffusione già significativi per il contesto italiano.

 

Le competenze digitali del personale delle imprese
La digitalizzazione cambia la domanda di competenze del personale e fa emergere nuove priorità e potenziali criticità. Il tema dell’alfabetizzazione informatica, ad esempio, è trasversale a tutti gli ambiti sociali ed economici ma risulta cruciale in contesti lavorativi soggetti a intensi processi di transizione digitale.

Il tema è ovviamente complesso e una singola indagine statistica può cogliere solo alcuni aspetti del fenomeno.

I risultati ottenuti dal censimento sono stati distinti in quattro aree di competenza: alfabetizzazione digitale (A), articolata in tre competenze specifiche; comunicazione e collaborazione (B), articolata in tre competenze specifiche; sicurezza (C), articolata in due competenze specifiche; soluzione dei problemi (D), articolata in due competenze specifiche (Figura 9).

L’area di competenza relativa alla sicurezza (C) è quella considerata più rilevante dalle imprese rispondenti: il 77,2% (86,8% degli addetti e 90,9% del valore aggiunto) considera rilevante la capacità del personale di “proteggere i dati personali e la privacy” e il 75% (85,4% degli addetti e 90,3% del valore aggiunto) di “proteggere i dispositivi digitali da virus o attacchi esterni”.

Il livello di criticità di queste competenze non è elevato, la percentuale di imprese che considerano non adeguato il livello di competenza del proprio personale varia tra il 10,4% e il 12,4% (quote analoghe anche in termini di addetti e valore aggiunto).

La seconda area di competenza segnalata è quella della comunicazione e collaborazione (B). Il 71,7% delle imprese (84,5% in termini di addetti e 89,1% in termini di valore aggiunto) considera importante la capacità di “comunicare sul luogo di lavoro via e-mail o mediante connessioni digitali”; la percentuale scende al 63,7% (78,2% addetti, 83,8%% valore aggiunto) per la capacità di “condividere informazioni di lavoro attraverso le tecnologie digitali” e al 59% (73,9% addetti e 80,0% valore aggiunto) per “collaborare sul lavoro attraverso le tecnologie digitali”.

Questo blocco di competenze sembra largamente acquisito dal personale delle imprese rispondenti: la criticità è del 6% o inferiore.

Tra le restanti classi di competenza, quella relativa alla capacità di affrontare e risolvere problemi in ambito informatico (D), la capacità di “risolvere problemi tecnico-informatici sul luogo di lavoro”, considerata rilevante solo dal 58,7% delle imprese (72,1% addetti, 78,0% valore aggiunto) è però quella con il più alto grado di criticità: tale competenza è infatti ritenuta non adeguata dal 20,7% delle imprese (equivalenti al 14,4% degli addetti).

Quanto alla capacità di “individuare le esigenze dei colleghi ed elaborare adeguate risposte basate su tecnologie digitali”, è considerata dalle imprese poco rilevante (42,7% imprese, con 61,3% addetti e 68,1% valore aggiunto) probabilmente perché è un compito troppo “tecnico” ma comunque rappresenta un punto di criticità per ben il 15,5% dei rispondenti (12,4% degli addetti).

 

Le competenze informatiche di base non sembrano essere tenute in grande considerazione dalle imprese, forse perché ritenute largamente acquisite dal personale. La capacità di “ricerca, selezione e modifica di documenti digitali in qualsiasi forma” è rilevante per il 54,6% delle imprese, la “valutazione, analisi e utilizzo di dati, informazioni e contenuti digitali, anche scaricati dal Web” dal 48,3%, la “gestione, elaborazione e classificazione di dati, informazioni e contenuti digitali in ambiente Web” dal 45,7%. Anche nel caso delle competenze digitali di base i livelli di criticità sono bassi, inferiori al 9%.

Effetti della digitalizzazione sulla struttura occupazionale
Un altro tema strettamente legato alla diffusione delle tecnologie digitali è quello relativo al loro potenziale impatto sulla struttura occupazionale delle imprese in termini di mansioni. In generale, si suppone che la digitalizzazione, ma anche l’automazione, possano ridurre le mansioni più “routinarie” aprendo prospettive di sviluppo per nuove mansioni di tipo più creativo.

Nell’ambito del censimento, l’Istat ha potuto raccogliere alcune evidenze, anche se necessariamente condizionate da una prospettiva di breve periodo (con riferimento a cambiamenti attesi tra il 2019 e il 2021) per un fenomeno che dovrebbe essere correttamente analizzato in una prospettiva almeno decennale. Il quesito è stato posto a imprese che hanno effettuato investimenti in tecnologie digitali nel triennio 2016-2018 o prevedono di investire nel triennio 2019-2021 con riferimento alle loro aspettative.

In termini di mansioni, sono stati identificati cinque grandi gruppi a cui fa spesso riferimento la letteratura sul tema: mansioni professionali specializzate; mansioni di interazione e comunicazione; mansioni tecnico-operative; mansioni manuali non specializzate; mansioni manuali specializzate

Ovviamente, le mansioni tecnico-operative e quelle manuali non specializzate sono quelle più “routinarie” e, in quanto tali, più facilmente sostituibili, in teoria, in un processo di digitalizzazione/automazione. I risultati del censimento contraddicono, in realtà, tale ipotesi teorica (forse in relazione sia all’ancora scarsa “maturità” digitale delle imprese italiane che alla ridotta prospettiva temporale) .

 

Infatti, le mansioni con le migliori prospettive sembrano essere quelle tecnico-operative (incremento previsto nel 67,6% delle imprese, decremento previsto nel 20%) e ciò può indicare una domanda crescente di personale tecnico da parte delle imprese italiane. Seguono le mansioni manuali non specializzate, tipicamente routinarie (con un incremento previsto dal 61,3% e una diminuzione per il 27,6%) e le mansioni di interazione e comunicazione (+60,5%, -25%) messe anch’esse, in teoria, a rischio dalle nuove tecnologie.

Meno dinamiche appaiono in prospettiva le mansioni potenzialmente più creative. Quelle professionali specializzate si espanderanno per il 53,2% delle imprese e si contrarranno per il 32,6%. Maggiore turbolenza potrebbe invece investire le mansioni manuali specializzate, anche a causa della loro elevata eterogeneità: in crescita per il 49,1% delle imprese e in riduzione per il 42,4%.

Anche qui il fattore dimensionale influenza molto le risposte delle imprese: quelle con 10-19 addetti sono molto più pessimiste delle altre mentre le grandi prevedono un impatto della digitalizzazione sull’occupazione assai più contenuto. Tale discrimine può essere individuato anche nella valutazione della singola tipologia di mansione, come nel caso delle mansioni professionali specializzate che sono relativamente stabili nelle imprese con almeno 50 addetti mentre si fanno più a rischio nelle imprese sotto tale soglia.

Come la digitalizzazione modifica la selezione e la gestione del personale
Nel corso del processo di transizione digitale, le imprese sono chiamate a ridefinire sostanzialmente il modo in cui selezionano e gestiscono il personale. Nuovi compiti, nuove competenze e nuove figure professionali -in parallelo con l’obsolescenza di forme di lavoro del passato – devono indurre le imprese a vedere nei propri dipendenti un asset per raggiungere la maturità digitale. Il censimento ha voluto esplorare se alcuni cambiamenti di approccio dal lato delle imprese siano già visibili.

In generale emerge un quadro piuttosto conservatore delle pratiche di gestione del personale utilizzate dalle imprese italiane anche se, ancora una volta, le differenze per classe dimensionale sono evidenti.
Infatti, in risposta a una crescente domanda di competenze digitali, il 38,3% delle imprese (51,3% degli addetti e 55,1% del valore aggiunto) dichiara che presterà maggiore attenzione a tali competenze in fase di selezione del personale (60,1% tra le imprese con più di 500 addetti) mentre il 33,6% (44,5% degli addetti totali) prevede

di esternalizzare le funzioni digitalizzate utilizzando le competenze digitali di consulenti o collaboratori (che è soltanto la quarta opzione per le imprese con 500 addetti e oltre) . Inoltre, il 22,7% delle imprese (41,1% degli addetti) ha in programma di incrementare gli investimenti in automazione, sia nei processi produttivi che nelle funzioni di servizio.

Considerando che come quarta opzione (22,2% delle imprese, 28,9% degli addetti) le imprese hanno indicato l’intenzione di avvalersi, per quanto possibile, della disponibilità del personale all’autoformazione, ovvero all’acquisizione autonoma di competenze digitali, il quadro complessivo è quello di un sistema delle imprese che, a fronte di rilevanti investimenti tecnologici, fatica a tenere il passo con adeguati investimenti per la valorizzazione del capitale umano.

L’investimento sistematico in formazione digitale per aumentare le competenze del personale è, infatti, solo la quinta opzione indicata dai rispondenti (21,6% delle imprese, 40,7% degli addetti) anche se, significativamente, la seconda più rilevante per le imprese con 500 addetti e oltre (54,0% delle imprese, che vale il 59,6% degli addetti delle grandi imprese e il 65,0% del loro valore aggiunto). Ѐ infine residuale (2,0% delle imprese) la scelta di accelerare il turnover tra personale con competenze obsolete e nuovo personale con migliori competenze digitali.

Anche questi dati confermano che il processo di transizione al digitale delle imprese italiane non ha le caratteristiche che possano consentire a molte di esse di raggiungere, in tempi brevi, lo stadio di “maturità”.
La limitata dimensione d’impresa condiziona ancora fortemente il sistema produttivo, non tanto per l’acquisizione di tecnologie digitali infrastrutturali quanto per un pieno utilizzo delle potenzialità delle tecnologie applicative. Emerge la mancanza di una cultura dell’investimento in capitale intangibile, e in primo luogo in capitale umano, per il quale sarebbero peraltro accessibili molteplici forme di sostegno pubblico.

L’impatto economico delle piattaforme digitali
Il monitoraggio delle vendite elettroniche, già oggetto di indicatori annuali Istat, viene arricchito dal censimento con un focus sull’utilizzo, da parte delle imprese con almeno 3 addetti, di piattaforme digitali di intermediazione commerciale, ovvero i siti Web attraverso cui una percentuale crescente di famiglie e imprese acquista beni e servizi.

L’approccio adottato è quello di individuare e profilare non le piattaforme digitali – con sede in Italia o all’estero – in quanto tali, ma piuttosto i soggetti economici italiani che, in alternativa o in aggiunta ai tradizionali canali commerciali, vendono i loro beni e servizi anche tramite piattaforme digitali. Ciò rende possibile analizzare tali imprese da due punti di vista: uno economico, sulla base della loro classificazione settoriale e dimensionale, e uno merceologico, grazie alla tipologia di piattaforme digitali che utilizzano per le loro vendite.

Il censimento ha consentito quindi all’Istat di stimare che, nel 2018, 99.814 imprese con 3 addetti e oltre – di cui 75.206 con meno di 10 addetti – hanno messo in vendita i loro beni o servizi su almeno una piattaforma digitale. Considerando la popolazione delle imprese censite, si tratta di quasi un’impresa su 10 attiva su piattaforme digitali (9,7% di imprese con 3 addetti e oltre, 11,6% di imprese con almeno 10 addetti).

Il volume di attività generato da tali imprese sulle piattaforme digitali è stimabile – con riferimento, però, alle sole imprese con 10 addetti e oltre – intorno al 2,4% del fatturato totale 2018, per un valore complessivo superiore ai 44 miliardi di euro. I dati totali offrono un quadro del fenomeno che va però letto soprattutto con riferimento ai settori più direttamente coinvolti ovvero quelli dove la vendita di beni e servizi tramite piattaforme digitali sta divenendo una componente essenziale delle strategie di commercializzazione delle imprese.

Il comparto turistico e della mobilità è quello più direttamente interessato, è presente su piattaforme digitali l’80% delle imprese con oltre 3 addetti attive nei servizi di alloggi . Inoltre, considerando le imprese con almeno 10 addetti, proviene da piattaforme digitali il 24% del fatturato totale del settore (con riferimento, quindi, a tutte le imprese indipendentemente dalla presenza su una piattaforma), quota che sale al 27,7% a livello di singola impresa (ovvero con riferimento alle sole imprese che utilizzano piattaforme).

I risultati confermano che per le imprese di alcuni settori è assolutamente necessario confrontarsi con i propri concorrenti sulle piattaforme digitali ma tenendo attivi anche gli altri canali commerciali, tradizionali e online. Nel trasporto aereo, il 46,9% delle imprese utilizza le piattaforme (praticamente tutte le imprese che offrono servizi di trasporto alle persone) con tassi di fatturato anche più alti rispetto ai servizi ricettivi: 26% sul totale del settore e 30,7% come media a livello d’impresa per le imprese presenti su piattaforme digitali.

Un altro esempio è quello delle agenzie di viaggio, che rappresentano un interessante caso di doppia intermediazione: la presenza sulle piattaforme serve a entrare in contatto con clienti a cui fornire, insieme alla propria consulenza, anche servizi forniti da terzi. La presenza complessiva è del 38,9% riguardo al numero di imprese; i tassi di fatturato sono del 10,9% (totale) e del 25,1% (media d’impresa).

Scorrendo la lista delle attività economiche considerate si possono poi identificare altre tipologie ricorrenti. Una prima è rappresentata dai settori con una significativa presenza sulle piattaforme digitali ma le cui imprese realizzano un fatturato assai basso (o spesso quasi nullo) tramite esse (attività editoriali, commercio di autoveicoli, produzione di bevande e alimentari…) al solo fine di aumentare la propria visibilità sul mercato, anche in presenza di basse aspettative sui relativi risultati economici.

Una seconda tipologia riguarda invece le imprese che realizzano interessanti tassi di fatturato nonostante una presenza contenuta sulle piattaforme digitali (ad esempio, produzione di software, noleggio di macchinari, telecomunicazioni, trasporto marittimo e servizi informatici in genere). In questi casi si tratta di mercati dominati da grandi imprese che operano prevalentemente su piattaforme digitali specializzate; a prescindere dall’impatto economico a livello di settore, le imprese che occupano tali nicchie di mercato riescono, in media, a realizzare quote di fatturato via piattaforme tra il 15% e il 25%.

Una terza tipologia è quella dei settori in una fase iniziale, almeno in Italia, in merito all’utilizzo di piattaforme (ad esempio, il commercio di autoveicoli, le attività immobiliari, l’ingegneria civile e le costruzioni). Nell’incertezza su quale modello organizzativo si consoliderà per questi settori – comparazione delle offerte su piattaforme digitali che consentono di acquistare direttamente beni o servizi oppure sviluppo di siti Web che offrono solo la comparazione dei prezzi di vendita senza vendita diretta – si osserva che diverse imprese già raggiungono quote di fatturato significative (tra il 10% e il 20%) dalla loro attività su piattaforme digitali.

Vale, infine, la pena porre attenzione su due aspetti solo parzialmente messi in evidenza dai dati censuari. Il primo è quello dell’offerta di servizi professionali e tecnici. I dati riguardanti la vendita di servizi di ingegneria o di architettura oppure informatici sottostimano con molta probabilità il crescente ricorso a piattaforme digitali per acquistare servizi di consulenza per operazioni immobiliari, di costruzione o ristrutturazione, sviluppo software ma anche prestazioni mediche o consulenze legali. Ovviamente, molti di questi servizi sono offerti da professionisti che operano come imprese individuali e in quanto tali escluse dal censimento. La portata economica e sociale di questo fenomeno potrà essere quindi colta solo con rilevazioni settoriali.

Il secondo riguarda l’impatto limitato che le piattaforme digitali sembrano avere avuto nel 2018 sul settore della ristorazione: soltanto il 12,1% delle imprese ha dichiarato di utilizzarle e anche in termini di fatturato i risultati non sono brillanti: appena il 2,2% per l’intero settore (anche se solo con riferimento alle imprese con almeno 10 addetti) e il 12,8% come media a livello d’impresa. Su questi risultati incide senz’altro la dimensione media delle imprese, dal momento che gli operatori del settore utilizzano estesamente rapporti di lavoro non dipendente e ciò contribuisce a portare molte imprese fuori dal campo di osservazione censuaria.

Un ulteriore aspetto che meriterà di essere affrontato con indagini settoriali è quello della percezione, nel settore della ristorazione, del ruolo delle piattaforme digitali. Infatti, le piattaforme offrono un doppio servizio in questo settore: intermediazione commerciale e consegna dei pasti a domicilio. I modelli di business adottati in Italia dalle principali piattaforme rendono i due servizi difficilmente distinguibili (tra l’altro la quota pagata dal ristoratore copre i costi di entrambi) e possono indurre i titolari di imprese a non considerarsi pienamente coinvolti nell’attività di una piattaforma poiché vista essenzialmente come agenzia di consegna pasti.

Rispetto alla valutazione dei risultati, il 17,3% delle imprese con 10 addetti e oltre stima che l’attività sulle piattaforme digitali abbia consentito di incrementare il fatturato totale di oltre il 10% (18,2% per le imprese con 10-19 addetti). L’impatto economico è comunque da considerarsi limitato perché il fatturato di queste imprese è complessivamente pari solo all’11,9% del totale delle imprese con almeno 10 addetti.

Il rafforzamento della posizione competitiva, un risultato spesso determinato anche soltanto dalla presenza di un’impresa sul sito Web di una piattaforma digitale, è un risultato acquisito dal 41,1% delle imprese (45,9% in termini di fatturato) e risulta particolarmente rilevante per quelle con oltre 500 addetti (61,5% delle imprese), a conferma che, almeno in alcuni settori, le piattaforme digitali sono vetrine in cui è necessario essere presenti per essere visibili alla potenziale clientela. L’utilizzo delle piattaforme digitali è invece un obiettivo fondamentale per il 30,8% delle piccole imprese, al fine di garantirsi un volume di vendite che consenta di rimanere attivi sul mercato (33,5% per le imprese con 10-19 addetti, ma solo 18,1% in termini di fatturato).

La potenzialità più interessante offerta dalla quasi totalità delle piattaforme digitali di aprire a soggetti anche di piccole dimensioni aziendali un mercato potenzialmente globale – non è molto sfruttata dalle imprese italiane: soltanto il 3,5% (4,4% del fatturato totale) dichiara, infatti, di aver acquisito nuovi clienti all’estero con la sua presenza su una piattaforma digitale. Bisogna notare che il quesito si riferiva ai nuovi clienti mentre è certa la presenza su piattaforme digitali commerciali di imprese italiane che hanno già clienti residenti all’estero.

L’analisi sinora svolta sulle imprese italiane che operano con piattaforme digitali non ha considerato la natura delle piattaforme a cui accedono tali imprese. La ricostruzione del legame tra un’impresa, come identificata in un registro statistico ufficiale, e una piattaforma digitale è un’operazione assai difficile considerando la varietà dei rapporti commerciali che possono instaurarsi tra l’impresa e la piattaforma (soprattutto in relazione ai diversi servizi che l’impresa può acquistare da una piattaforma), la diversità dei modelli di business adottati dalle piattaforme e la localizzazione stessa della piattaforma che, spesso, ha sede all’estero.

Senza adottare distinzioni predefinite in base alla tipologia o alla localizzazione delle piattaforme digitali considerate, si può osservare che la maggior parte delle imprese italiane con oltre 3 addetti che utilizzano piattaforme digitali (5,4% del totale dei settori considerati, pari a oltre 28 mila imprese, 10% delle imprese tra i 10 e 100 addetti) è presente su piattaforme internazionali che vendono servizi turistici (es. Booking.con, Expedia, TripAdvisor) o servizi di affitto a breve termine (es. AirBnB).

Esistono però anche piattaforme digitali italiane che, prevalentemente su base territoriale, svolgono attività di intermediazione sul Web tra strutture ricettive del territorio e potenziali clienti .

Un secondo gruppo, che comprende prevalentemente imprese manifatturiere, ma anche imprese del commercio che vendono attraverso piattaforme digitali, è composto da imprese che vendono i propri prodotti su piattaforme commerciali multi-settore (4% del totale delle imprese, 7% di imprese tra 250 e 500 addetti, 8,2% oltre i 500 addetti). L’esempio più comune in questa categoria di piattaforme è l’Amazon Marketplace (non Amazon in quanto rivenditore di beni acquistati dai propri fornitori), insieme a Ebay ed Etsy.

Un terzo gruppo (2,9% del totale dei settori considerati) include le imprese della ristorazione che utilizzano piattaforme per la prenotazione e la consegna di pasti a domicilio, come Deliveroo, Just Eat, Uber Eats e alcune piattaforme italiane operanti prevalentemente su base regionale.

Un quarto gruppo, che include circa 11 mila imprese con almeno 3 addetti (2% del totale e prevalentemente sotto i 10 addetti), è piuttosto composito, essendo riferito alle imprese che offrono i loro servizi su piattaforme digitali che vendono servizi professionali (es. ProntoPro o Fazland).

Un quinto gruppo comprende le imprese che producono e/o vendono prodotti per la casa, inclusi mobili, e prodotti del settore della moda. Sono l’1,3% delle imprese dei settori considerati per un totale di circa 5 mila imprese. Per quanto riguarda l’intermediazione, le piattaforme esistenti (es. Westwing) si stanno rapidamente

trasformando in e-shop tradizionali, quindi rivenditori, lasciando spazio a piattaforme commerciali gestite direttamente da consorzi di produttori.

Un sesto gruppo riguarda la vendita online specializzata di elettronica, ottica e strumentazione scientifica, settore dove operano anche piattaforme digitali nazionali. Le imprese interessate sono necessariamente poche, circa 3.500, lo 0,9% dei settori considerati.

Nel trasporto di persone (incluso il trasporto aereo) le piattaforme digitali gestiscono poco più di mille imprese (lo 0,4% di un gruppo molto composito di settori considerati nel censimento). Le piattaforme più attive sono quelle internazionali specializzate in servizi turistici e, soprattutto, nella vendita di biglietti aerei (es. Volagratis, Skyscanner).
Infine, un ultimo gruppo riguarda la consegna di prossimità di prodotti vari (es. Glovo, TakeMyThings), evidentemente utilizzata più da privati per le loro consegne, che da imprese (0,2% sul totale delle imprese).

Anche da questa sintetica rassegna emerge il quadro di un settore molto dinamico per cui è difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di lungo periodo, pur all’interno di una tendenza generale all’espansione delle attività commerciali via Web. Ad integrazione del quadro fornito dal censimento, l’approfondimento di alcuni temi – anche di rilievo politico-normativo, come la regolamentazione del lavoro all’interno delle piattaforme digitali – sarà possibile solo attraverso il ricorso a ulteriori indagini settoriali.




Rc auto online: nel 2019 polizze online in lieve aumento rispetto al 2018

L’anno che sta per concludersi ha fatto registrare un minimo aumento (6% pari a 33 euro) dei costi assicurativi sostenuti dagli automobilisti che abbiano scelto di sottoscrivere una polizza online. L’ultimo studio SosTariffe ha stimato l’incremento del costo medio e della diffusione dell’Rc auto, considerando la tutela base e le principali garanzie accessorie

Assicurare la nostra auto online quest’anno ci è costato un po’ di più rispetto al precedente, anche se per fortuna nel 2020 potremo avvalerci della classe di merito RCA familiare, grazie al Decreto fiscale appena varato.

L’Osservatorio SosTariffe ha rilevato infatti nel 2019 un incremento minimo (+ 6%) del costo della polizza base RC auto sottoscritta sul web, il cui prezzo medio sale di 33 euro, a fronte del 2018.

Lo studio ha preso in esame oltre alla tutela base, anche le principali garanzie accessorie (dal soccorso stradale agli infortuni del conducente, passando per la Kasko e gli atti vandalici), facendo il punto sulle modifiche in termini di costi e diffusione nel corso dell’anno che volge al termine.

L’indagine, condotta a dicembre 2019, ha preso le mosse da dati ricavati dai preventivi RC auto richiesti al comparatore negli ultimi dodici mesi. Questi ultimi sono stati forniti da compagnie assicurative dirette, cioè attive soprattutto su internet.

Nel corso di un anno, dunque, il costo della polizza base è salito del 6%, crescendo di 33 euro. Se nel 2018 bastavano 556 euro in media per la garanzia di base, nel 2019 ne sono serviti invece 589.

Anche le voci accessorie hanno subito degli aumenti, seppur moderati. In ordine di rincari, risente dell’aumento maggiore il soccorso stradale (+ 25%). Il suo costo, infatti, è salito da una media di 20 a 25 euro. Per un totale di 5 euro in più, che nel complesso si fanno sentire.

Cresce un po’ meno la garanzia furto e incendio (+ 23%) che da una media di 91 euro arriva a pesare sul costo complessivo della polizza per 112 euro, pari a 21 euro in più.

Anche proteggere i cristalli nel 2019 ci è costato maggiormente (+20%): il costo medio di questa voce è schizzato infatti da 39 a 47 euro, con 8 euro di differenza.

Ha dovuto aggiungere 6 euro invece, chi si è assicurato contro gli infortuni del conducente, passando da spendere 37 a 43 euro (rincaro del 16%). L’aumento generale si ripercuote anche sulla garanzia che copre il veicolo da danni legati agli eventi naturali. In questo caso si registra un incremento di 7 euro, da 57 a 64 euro totali (pari al 13% in più).

Garanzie accessorie: gli incrementi minori

Quasi impercettibile la differenza di prezzo per la garanzia “tutela legale”, che passa da 16 a 17 euro (10% in più). La Kasko, in un anno è cresciuta solo del 5%. Ma in proporzione il suo costo si attesta su ben 25 euro in più, passando da una media di 496 agli attuali 520 euro. Irrisorio anche l’aumento della garanzia atti vandalici, che cresce da 92 a 94 euro (solo il 2% in più). Non risentono di alcun aumento invece, le voci animali selvatici (ferma a 25 euro annui) e auto di cortesia (ci costa in media sempre solo 5 euro).

Animali selvatici e soccorso stradale: le tutele più gettonate

Se invece ci concentriamo sotto il profilo della diffusione, quali sono le garanzie più richieste?

Nel corso dell’anno che sta per concludersi, è curioso notare, si è registrato un brusco aumento per la tutela nei confronti dei danni da animali selvatici. Questa voce della polizza ha subito infatti un aumento di diffusione pari addirittura all 88%. Si tratta di una garanzia gettonata soprattutto da chi vive in montagna o nei pressi di parchi naturali in cui è facile incontrare fauna autoctona, come cervi o cinghiali.

Sempre più sottoscritta anche la tutela Kasko (+ 63% di diffusione). Si tratta, com’è noto, di una polizza, che consente al contraente di ottenere in caso di sinistro un risarcimento del danno a prescindere dalla responsabilità. Anche se lui stesso causa un sinistro stradale.

Al terzo posto sul podio della maggiore diffusione troviamo il soccorso stradale (43% in più). La garanzia accessoria prevede, 24 ore su 24 in Italia e all’estero, il traino dell’auto fino all’officina più vicina nel caso in cui, in seguito a un sinistro stradale, non sia più utilizzabile. Mentre nel 2018 sceglievano di avvalersene soltanto il 29% degli automobilisti, quest’anno se ne sono avvalsi molti di più (41%). Tra le garanzie la cui diffusione è cresciuta meno nel corso dell’ultimo anno troviamo invece a pari merito atti vandalici e auto di cortesia (+ 37%), seguite da furto e incendio (più 31%) e infine infortuni del conducente (più 29 %).




Coronavirus, giocare d’anticipo sul virus per contenere la seconda ondata

Il monitoraggio indipendente della Fondazione GIMBE registra nella settimana 16-22 settembre, rispetto alla precedente, un ulteriore incremento nel trend dei nuovi casi (10.907 vs 9.837) a fronte di un lieve aumento dei casi testati (385.324 vs 370.012).

Dal punto di vista epidemiologico crescono i casi attualmente positivi (45.489 vs 39.712) e, sul fronte degli ospedali, i pazienti ricoverati con sintomi (2.604 vs 2.222) e in terapia intensiva (239 vs 201). Dopo la sostanziale stabilità registrata nella settimana precedente, tornano a salire anche i decessi (105 vs 70).

In dettaglio, rispetto alla settimana precedente, si registrano le seguenti variazioni:
Decessi: +35 (+50%)
Terapia intensiva: +38 (+18,9%)
Ricoverati con sintomi: +382 (+17,2%)
Nuovi casi: +10.907 (+10,9%)
Casi attualmente positivi: +5.777 (+14,5%)
Casi testati +15.312 (+4,1%)
Tamponi totali: +52.304 (+9%)

«Nell’ultima settimana – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – risale l’aumento dei nuovi casi, in conseguenza dell’incremento sia dei casi testati sia del rapporto positivi/casi testati. Si conferma inoltre la crescita costante dei pazienti ospedalizzati con sintomi e di quelli in terapia intensiva».

Nell’ambito di una circolazione endemica del virus, l’aumento dei focolai determina la progressiva crescita dei nuovi casi settimanali. Infatti, dai 1.408 nuovi casi della settimana 15-21 luglio siamo passati ai 10.907 di quella 16-22 settembre, con un incremento del rapporto positivi/casi testati dallo 0,8% al 2,8% , seppure con ampie variabilità regionali: dall’1,1% della Basilicata al 6,5% della Liguria.

Le dinamiche del contagio hanno generato il progressivo aumento dei casi attualmente positivi che da fine luglio sono quasi quadruplicati, da 12.482 a 45.489 , anche se distribuiti in maniera molto diversa tra le Regioni, in relazione a 3 variabili :
“Densità” del contagio: casi attualmente positivi per 100.000 abitanti al 22 settembre.
Velocità di diffusione del contagio: incremento percentuale dei casi nella settimana 16-22 settembre.

Capacità di testing delle Regioni: numero di casi testati per 100.000 abitanti nella settimana 16-22 settembre, che condiziona l’incremento percentuale dei casi e il numero dei casi attualmente positivi.

L’incremento progressivo dei casi attualmente positivi si riflette anche sull’aumento delle ospedalizzazioni: infatti, in 2 mesi i pazienti ricoverati con sintomi sono aumentati da 732 a 2.604 e quelli in terapia intensiva da 49 a 239 . «Fortunatamente – spiega Cartabellotta – la composizione percentuale dei casi attualmente positivi si mantiene costante: mediamente il 93-94% sono asintomatici/oligosintomatici; i pazienti ricoverati con sintomi rappresentano il 5-6% del totale e quelli in terapia intensiva lo 0,5%, anche se con differenze regionali rilevanti».

In particolare, la percentuale dei ricoverati con sintomi sui casi attivi va dal 2,4% della Provincia autonoma di Trento al 9,7% della Liguria; la percentuale di quelli in terapia intensiva dallo 0% della Provincia Autonoma di Trento e della Valle D’Aosta all’1,2% della Sardegna.

Nella settimana 16-22 settembre circa l’85% dei pazienti ricoverati con sintomi si concentrano in Lazio (482), Campania (360), Lombardia (294), Sicilia (224), Puglia (204), Emilia-Romagna (185), Piemonte (164), Liguria (148) e Veneto (141). L’82,8% dei pazienti in terapia intensiva si distribuisce in 9 Regioni: Lombardia (34), Lazio (31), Campania (23), Emilia-Romagna (22), Toscana (21), Sardegna (21), Liguria (17), Sicilia (15) e Veneto (14).

«Se da lato si tratta di numeri che al momento non generano alcun sovraccarico dei servizi ospedalieri – puntualizza il Presidente – dall’altro non bisogna sottovalutare il trend in costante aumento che impone di mantenere la guardia molto alta, soprattutto in alcune Regioni».

In particolare, i tassi di ospedalizzazione per 100.000 abitanti superiori alla media nazionale (4,7) sono in Liguria (10,6), Lazio (8,7), Sardegna (7,1), Campania (6,6), Puglia (5,3) e Sicilia (4,8).

Da 8 settimane consecutive i numeri confermano la crescita costante della curva epidemica e delle ospedalizzazioni, e al momento sono molte le variabili che non lasciano ipotizzare alcuna flessione: dalla riapertura delle scuole all’aumento della circolazione del virus nella stagione invernale; dal continuo incremento dei casi in paesi senza restrizioni di ingresso in Italia, alla convivenza tra coronavirus e influenza stagionale; dalla vita in ambienti chiusi e su mezzi pubblici più affollati, alla ventilata riapertura degli stadi.

«Se è vero che rispetto ad altri paesi europei – conclude Cartabellotta – manteniamo ancora un vantaggio rilevante grazie ad un lockdown più tempestivo, intenso e prolungato e a riaperture più graduali, non è il caso di adagiarsi sugli allori, ma bisogna giocare d’anticipo sul coronavirus per contenere la seconda ondata ed evitare sovraccarichi del sistema sanitario.

Innanzitutto, serve un potenziamento consistente del sistema di testing & tracing oltre che adeguate misure per l’isolamento domiciliare; in secondo luogo devono essere garantite le coperture vaccinali a tutte le categorie a rischio; infine, bisogna assicurarsi che i servizi sanitari delle Regioni del centro-sud, meno avvezzi alla gestione dell’emergenza ospedaliera da COVID-19, siano adeguatamente organizzati e potenziati.

Tutti noi infine, oltre a rispettare rigorosamente tutte le misure raccomandate, siamo chiamati a proteggere al meglio gli anziani e le persone fragili, vista la notevole circolazione in ambito familiare del virus, soprattutto tra giovani asintomatici».




Bollette della luce gonfiate: cinque consigli per evitare fatture elevate

Le fatture dell’energia elettrica potrebbero riservare delle sorprese: dai consumi presunti, all’applicazione di clausole contrattuali errate, fino alla pretesa di arretrati oltre i due anni. Come farsi rispettare? Una guida con i consigli pratici degli esperti SOStariffe.it per pagare il giusto e pretendere, nel caso, il rimborso delle cifre ingiustamente versate

A partire dal primo aprile l’Arera, l’Authority di settore, ha rivisto al ribasso le tariffe della luce per il secondo trimestre del 2020 (-18,3%) per i clienti in regime di maggior tutela. Dunque almeno per il mercato tutelato, le bollette dell’energia elettrica dovrebbero essere più leggere. Ma ciò non sempre accade. Come mai? La fattura della luce potrebbe essere gonfiata rispetto ai consumi reali. SOStariffe.it ha stilato un elenco di cinque regole d’oro per smascherare i costi aggiuntivi e accertarci così di star pagando il giusto.

I consumi si controllano così
Anzitutto è buona norma imparare a leggere con attenzione la bolletta, per evitare di pagare ciò che non si deve, anche se siamo passati al mercato libero e abbiamo sottoscritto un’offerta luce conveniente. Teniamo conto che tra le voci di costo riportate sulla fattura ce ne sono alcune fisse:
– il costo della materia prima, deciso dal fornitore di energia e indicato sul contratto firmato;
- la spesa per trasportare l’energia dalle centrali a casa;
- quella per lettura e gestione del contatore, che cambia con i consumi;
- gli oneri di sistema.
A queste voci costanti si aggiungono poi diverse imposte, come l’IVA e le accise a cui di recente si è aggiunto il canone RAI che costa 90 euro all’anno, ma si paga 9 euro per volta in 10 mesi. Le bollette hanno un genere una periodicità bimestrale. I consumi riportati devono essere effettivi, cioè corrispondere ai valori riportati dal contatore.

Ricordarsi di comunicare l’autolettura
Le fatture potrebbero non essere ‘fedeli’ all’energia effettivamente consumata, ma basarsi invece su un calcolo presuntivo dell’energia stimata nel periodo considerato. I consumi riportati in bolletta infatti, possono comprendere sia i kWh effettivamente impiegati che quelli solo stimati.

Per scoprirlo dobbiamo tenere sotto controllo il contatore. Il modo per farlo è l’autolettura: ovvero comunicare al fornitore i dati riportati volta per volta sul nostro contatore. Controllare ogni bimestre il contatore ci aiuterà ad accorgerci se i valori riportati in bolletta non corrispondono al consumo reale. Se dovessimo notare delle difformità, rivolgiamoci al servizio clienti del nostro fornitore per farci inviare una nuova bolletta con i consumi effettivi. Pretendiamo inoltre il rimborso delle somme versate per errore.

Ad oggi i contatori della luce sono in molti casi smart meter, cioè contatori elettronici tele-gestiti, letti a distanza dal fornitore. Ce ne sono in servizio oltre 35 milioni. Se disponiamo di un contatore elettrico telegestito non dobbiamo comunicare nessuna lettura, poiché lo smart meter trasmette i dati rilevati in tempo reale ogni quarto d’ora e le fatture sono emesse in base ai consumi effettivi.

Ad ogni modo se vogliamo leggere quanto stiamo consumando, la gran parte dei modelli di contatore elettronico dispongono di un tasto grigio vicino al display, premendo il quale si potranno visualizzare il codice cliente, la potenza massima del contatore, e i dati di consumo in corrispondenza dei simboli A1, A2 e A3 che indicano la quantità di energia usata nelle varie fasce orarie (rispettivamente F1, F2 ed F3).
Se in casa abbiamo ancora il vecchio contatore tradizionale, invece, è importante ricordarsi di comunicare le cifre prima della virgola. Tutti i gestori mettono a disposizione appositi canali per trasmettere i dati rilevati: un numero telefonico, un’app per tablet e smartphone oppure un’area del proprio sito.

È la tariffa giusta per noi? Verificare il profilo di consumo
Al momento della firma del contratto ci viene assegnato un profilo di consumo, che poi ritroveremo riportato in bolletta, insieme al tipo di offerta sottoscritta, alla tensione della fornitura elettrica e alla potenza impegnata.

In genere si distingue tra uso domestico residente e non residente. Tuttavia il profilo che è stato selezionato in fase di firma del contratto potrebbe non essere applicato correttamente. Se le condizioni non vengono rispettate dobbiamo inviare un reclamo al fornitore. Al reclamo si dovranno allegare i documenti che attestano l’assegnazione del profilo a cui facciamo riferimento. Potremmo inoltre anche esigere un eventuale rimborso del prezzo ingiustamente pagato per l’errore del fornitore.

Come scoprire il fornitore non sta ai patti
Al pari del profilo di consumo, è importante controllare anche l’applicazione di tutte le altre clausole del contratto. Se ad esempio abbiamo stipulato un contratto di fornitura di energia con tariffa monoraria e nella bolletta ritroviamo la ripartizione dei consumi su due fasce orarie, allora c’è evidentemente un errore di applicazione delle clausole del contratto. Non ci resta che rivolgerci al servizio clienti del nostro fornitore o inoltrare un reclamo.
Bollette prescritte in 2 anni

A partire dal 2019 le bollette della luce si prescrivono in due anni e non più in cinque. Il diritto al pagamento del corrispettivo da parte del fornitore dunque viene meno passati i due anni dall’emissione. Se il fornitore ci richiede arretrati più vecchi di 24 mesi non siamo tenuti a pagare, né la compagnia potrà sospendere l’erogazione dell’energia per morosità. In caso in cui si riceva in bolletta la richiesta di pagare un importo caduto in prescrizione, bisognerà inviare un reclamo tramite raccomandata con ricevuta di ritorno.
Usare un comparatore per passare al mercato libero

 




Aumenti luce e gas: con il mercato libero risparmi fino a 217 euro. In calo rispetto al 2020

Il 2021 prende il via con bollette luce e gas più pesanti. In base all’aggiornamento trimestrale dei prezzi stabilito da Arera, l’Authority di settore, le famiglie in regime di maggior tutela tra gennaio e marzo del 2021 spenderanno di più per la luce (+ 4,5%), ma anche per il gas (+ 5,3%).

Il passaggio al mercato libero, quindi, è un’opportunità concreta per alleggerire le spese per le utenze. Tuttavia, passare al mercato libero permetterà risparmi (seppur di poco) inferiori rispetto al 2020. L’ultimo studio SOStariffe.it ha calcolato quanto sarà possibile mettere da parte, distinguendo tre profili- tipo di consumo: un single, una coppia e una famiglia di quattro persone.

Vita da single: risparmi medi di 132 euro in un anno, in calo rispetto al 2020 (-6,54%)

I dati sono stati ricavati da SOStariffe.it avvalendosi del proprio comparatore offerte luce e gas. I costi e gli importi sono stati simulati sulla base della promozione più conveniente nel mercato libero a gennaio 2021, posta a confronto con la migliore offerta di ottobre 2020, per ciascun profilo di consumo. Il primo profilo considerato è quello di un single residente a Milano, con fabbisogno di luce pari a 1400 kWh e di gas di 500 Smc.

Approfittando delle migliori tariffe del momento sul mercato libero, il single riceverà in media quest’anno una bolletta della luce di 268 euro e una del gas di 322 euro. Sommando entrambe le utenze arriverà a spendere 590 euro. Si tratta di somma ben più alta se confrontata con la stessa spesa per luce e gas di ottobre 2020, pari a 567 euro (circa il 4% in più). Dunque, i rincari del primo trimestre 2021 sembrano avere un impatto anche per i clienti che non sono più in regime di maggior tutela.

Nonostante tutto, il passaggio al mercato libero risulta comunque conveniente anche se un po’ meno rispetto allo scorso anno. L’indagine, infatti, ha evidenziato che lo stesso single nel corso del 2020 riusciva a risparmiare 141 euro su entrambe le bollette mentre nel 2021 potrà risparmiarne solo 132 (circa il 6,54% in meno).

Coppie: nel 2021 risparmi attesi di 141 euro, tra luce e gas. Più bassi del 2020 (-28,78%)

Il secondo profilo di consumo esaminato dall’Osservatorio SOStariffe.it è quello di una coppia che vive a Milano con un fabbisogno annuo medio di 2400 kWh di luce e 800 Smc di gas. Anche per le coppie le bollette del 2021 si rivelano più gravose. Pur approfittando dell’offerta più economica attualmente reperibile sul mercato libero, le coppie dovrebbero sostenere una spesa media annua di 411 euro di luce e 510 euro di gas. Considerate entrambe le utenze, dunque, si arriva a spendere una media di 921 euro nel 2021 a fronte di soli 848 spesi nel 2020 (pari al 8,64% in più).

Gli importi possono variare a seconda che si scelga un’offerta monoraria o bioraria. A risentire meno degli aumenti sono le offerte monorarie a prezzo variabile. Anche in questo caso il passaggio al mercato libero risulta sempre vantaggioso, tuttavia la convenienza si è purtroppo attenuata rispetto allo scorso anno. Le coppie nel 2020 hanno potuto risparmiare su entrambe le utenze fino a 199 euro. Nel 2021 i risparmi si fermano a 141 euro (circa il 28,78% in meno).

Famiglie: fino a 217 euro di risparmi nel 2021. Appena meno (-5, 82%) del 2020

I nuclei familiari si confermano, come lo scorso anno, il profilo di consumo in grado di ottenere i maggiori risparmi con il passaggio al mercato libero. L’Osservatorio SOStariffe.it si riferisce a una famiglia tipo di 4 individui, con casa a Milano e un fabbisogno annuo di 3400 kWh di luce e 1400 Smc di gas.

Dal report emerge che, pur approfittando delle offerte più economiche sul mercato libero a gennaio 2021, le famiglie dovranno sostenere costi più elevati nel corso dell’anno appena iniziato. Con una spesa che si aggira per l’energia elettrica sui 566 euro e per il gas attorno a 842 euro.

L’impegno economico complessivo per le due utenze è pertanto pari a 1408 euro annui, mentre lo scorso anno, ad ottobre, si attestava sui 1370 euro (circa il 2,76% in più). Il passaggio al mercato libero consente dunque alla famiglia-tipo di risparmiare più di tutti gli altri consumatori considerati: ben 217 euro nel corso del 2021. Purtroppo, anche in questo caso, si registra un lieve calo (-5,82%) rispetto ai risparmi del 2020, che si aggiravano su 230 euro annui.

Alcuni consigli di risparmio: usare il comparatore e controllare i dati in fattura

Come fare a individuare l’offerta giusta nel mercato libero? La prima regola, e anche la più importante, e quella di utilizzare un comparatore, come il tool semplice e intuitivo messo a disposizione da SOStariffe.it, grazie al quale sono stati rilevati i dati di questa indagine.

Altra regola d’oro per il risparmio è verificare tutti i costi in bolletta, per non avere sorprese dopo la sottoscrizione di un nuovo contratto. Cosa significa? La bolletta della luce e quella del gas sono composte di varie voci. Alcune sono identiche per tutti i fornitori, in quanto stabilite dall’Autorità di settore. Il costo a cui prestare maggiore attenzione è, per la luce, quello relativo al prezzo energia e, per il gas, la spesa materia prima gas. Nel mercato tutelato è Arera, infatti, a fissare e aggiornare ogni tre mesi questo costo. Mentre nel mercato libero è il fornitore che lo sceglie e lo modifica in base a quanto indicato nelle condizioni contrattuali. Per evitare rincari nel breve periodo, conviene attivare tariffe con prezzo che resti bloccato quanto più a lungo possibile.

Come cambiare fornitore nel modo più intelligente

Individuiamo a questo punto le promozioni riservate a chi è in cerca di nuovo gestore. Fornendo i dati presenti in bollette al nuovo gestore, potremmo procedere al cambio di fornitura nel giro di un mese. Altro espediente utile a risparmiare è scegliere le offerte dual fuel, ovvero le promozioni che comprendono una doppia fornitura energetica (luce e gas). Le comodità di queste soluzioni consistono nella ricezione di una sola bolletta per entrambe le forniture e nella presenza di sconti extra per l’attivazione congiunta oltre al vantaggio di rivolgersi a un solo interlocutore. Infine, è sempre buona norma leggere le opinioni degli altri clienti in merito ad un determinato fornitore. Tali opinioni sono disponibili, oltre che sui siti dei medesimi gestori, su portali specializzati. Anche SOStariffe.it ha creato, sul proprio sito, uno spazio con le opinioni degli utenti. Una sorta di “passaparola” che ci aiuta a scoprire la reputazione digitale del nostro futuro fornitore.