La prima edizione del Censimento permanente delle imprese, conclusa alla fine del 2019, ha permesso di approfondire anche tematiche emergenti e rilevanti per la competitività, la sostenibilità sociale e ambientale e la crescita economica del Paese.
Nel rapporto che viene diffuso oggi l’attenzione si focalizza su digitalizzazione/tecnologia/innovazione. La progressiva digitalizzazione dei processi aziendali viene adottata come chiave di lettura per una serie di fenomeni che stanno influenzando le strategie imprenditoriali come lo sviluppo di progetti di innovazione, l’emergere di nuovi modelli di business, la diffusione e l’utilizzo di nuove tecnologie e, infine, l’impatto della digitalizzazione sulla forza lavoro.
Riguardo la diffusione di tecnologie digitali, l’utilizzo di un insieme di indicatori è giustificato da almeno due motivazioni. In primo luogo, la digitalizzazione è un fenomeno complesso e multidimensionale, tale da essere comunemente misurato mediante batterie di indicatori in forma di scoreboard, oppure con indicatori sintetici.
In secondo luogo, a livello internazionale il quadro metodologico e definitorio è ancora parziale; in particolare, manca una esauriente definizione a fini statistici di cosa si intenda esattamente per digitalizzazione. Ciò rende necessaria l’identificazione di indicatori che, seppur parziali, siano complementari tra loro e legati da una chiave di lettura unitaria, in modo da evitare raccolte asistematiche di generici indicatori “digitali”.
Ad esempio, gli indicatori statistici disponibili – riferiti per lo più all’adozione e all’uso di tecnologie ICT – sono stati utilizzati per misurare la trasformazione digitale delle imprese semplicemente in relazione alla diffusione di alcune tecnologie o pratiche – come la connettività a banda larga o la pratica dell’e-commerce – senza analizzare le trasformazioni da esse indotte nei processi aziendali.
La pratica manageriale suggerisce che la trasformazione digitale è invece essenzialmente un processo di evoluzione dell’organizzazione e della cultura aziendale che mira a raggiungere la “maturità” digitale (digital maturity) delle imprese.
Nel censimento permanente il tema della digitalizzazione è stato quindi interpretato integrando il monitoraggio degli investimenti in tecnologie digitali di tipo infrastrutturale (connessione a Internet, acquisto di servizi cloud, ecc.) con l’individuazione di investimenti più specializzati che possano segnalare uno spostamento verso il pieno utilizzo delle risorse digitali disponibili (Big Data, applicazioni di Internet delle cose, stampa 3D, robotica, simulazione, ecc.). In tale prospettiva, per maturità digitale si intende l’investimento in infrastrutture digitali non come obiettivo a sé ma come condizione per ottimizzare i flussi informativi all’interno dell’impresa, con effetti positivi in termini di efficienza e competitività.
Tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative
Nel periodo 2016-2018 oltre tre quarti delle imprese con almeno 10 addetti (77,5%) hanno investito, o comunque utilizzato, almeno una delle 11 tecnologie individuate nel questionario del censimento come fattori chiave di digitalizzazione.
L’utilizzo congiunto di tali tecnologie – in particolare, di una combinazione tra infrastrutture digitali e tecnologie applicative – viene quindi proposto come indicatore sperimentale di maturità digitale.
La maggior parte delle imprese utilizza un numero limitato di tecnologie, dando priorità agli investimenti infrastrutturali (soluzioni cloud, connettività in fibra ottica o in mobilità, software gestionali e, necessariamente, cyber-security) e lasciando eventualmente a una fase successiva l’adozione di tecnologie applicative.
Sinora, il grado di “digitalizzazione” delle imprese è stato misurato essenzialmente in termini di infrastrutturazione (accesso alla banda larga, numero di apparecchiature acquistate od utilizzate, ecc.) con il rischio che una rapida diffusione della capacità tecnica di utilizzo di strumenti digitali potesse dare l’impressione di una maturità digitale che, in realtà, esisteva solo potenzialmente.
L’utilizzo di infrastrutture digitali giunge a saturazione già tra le imprese meno digitalizzate (quelle con investimenti “soltanto” in 4 o 5 tecnologie), solo molto più lentamente si diffondono applicazioni più complesse e con maggiore impatto sui processi aziendali: appena il 16,6% delle imprese ha adottato almeno una tecnologia tra Internet delle cose, realtà aumentata o virtuale, analisi dei Big Data, automazione avanzata, simulazione e stampa 3D) .
Il processo di digitalizzazione delle imprese sembra distinto in due stadi o, in alcuni contesti più complessi, anche multistadio. Appare infatti evidente la necessità di costruire in una prima fase le condizioni tecniche e culturali per avviare il processo di digitalizzazione che si completa, in una seconda fase, con l’adozione di soluzioni applicative più utili ed efficaci per aumentare efficienza e produttività.
La chiave di lettura proposta è quella di superare un approccio quantitativo (maturità digitale = numero di tecnologie adottate) e di considerare come fattore chiave l’integrazione tra tecnologie infrastrutturali e tecnologie applicative in un’ottica di complementarietà delle varie soluzioni tecnologiche. Ovviamente, un limite di tale approccio è che non esiste un mix tecnologico da identificare come ideale ma, piuttosto, l’integrazione di diverse soluzioni tecnologiche deve assecondare la forte eterogeneità esistente nel settore delle imprese.
Il discrimine dimensionale nell’adozione di tecnologie digitali, ad esempio, è assai marcato. Ha effettuato investimenti digitali il 73,2% delle imprese con 10-19 addetti e il 97,1% di quelle con oltre 500 addetti. Meno significative sono le differenze territoriali: si passa dal 73,3% nel Mezzogiorno al 79,6% nel Nord-est.
A livello settoriale emerge il ruolo trainante dei servizi: le telecomunicazioni (94,2%), la ricerca e sviluppo, l’informatica, le attività ausiliarie della finanza, l’editoria e le assicurazioni hanno percentuali di imprese che investono in tecnologie digitali superiori al 90%. Il primo settore manifatturiero per investimenti digitali è la farmaceutica (94,1%), seguita a distanza dalla chimica (86,6%).
Il livello di maturità digitale delle imprese italiane
La base informativa offerta dal censimento consente di valutare come si distribuiscono tali imprese in relazione all’utilizzo combinato delle tecnologie. Una semplice analisi per classi latenti ha consentito di individuare quattro profili di impresa, definiti non tanto in base all’intensità dei loro investimenti digitali, quanto alla combinazione di diverse soluzioni tecnologiche interpretate come tra loro complementari .
Infine, il quarto gruppo è formato da imprese digitalmente “mature”, caratterizzate da un utilizzo integrato delle tecnologie disponibili, che sono un punto di riferimento per l’intero sistema delle imprese pur rappresentando solo il 3,8% del totale.
La presenza di tali gruppi di imprese è piuttosto omogena a livello settoriale, nel senso che la distribuzione non è molto diversa tra industria e servizi se non per il dato particolarmente elevato del 5,2% di imprese digitalmente “mature” nell’ambito dell’industria in senso ampio: un probabile effetto dei consistenti incentivi alla digitalizzazione resi disponibili a livello statale e regionale nel corso degli ultimi cinque anni.
La valutazione del grado di maturità digitale delle imprese italiane con 10 addetti e oltre può essere sintetizzata in quattro punti: circa tre quarti delle imprese sono impegnate in investimenti digitali (ma con prospettive di ulteriore diffusione di tali attività); le imprese sotto i 100 addetti sono prevalentemente coinvolte nella “costruzione” del loro peculiare modello di digitalizzazione; le imprese con oltre 100 addetti sono invece alle prese con la difficile “sperimentazione” di nuove soluzioni tecnologiche e organizzative; soltanto il 3,8% delle imprese (che valgono il 16,8% di addetti e il 22,7% di valore aggiunto) è già nella fase di maturità digitale; tale quota è decisamente più elevata nel Nord-ovest (4,7%), tra le imprese con oltre 500 addetti (23%) e nell’industria (5,2%).
Le soluzioni cloud: una vera tecnologia “abilitante”
Ѐ stato già osservato il ruolo degli investimenti in cyber-security e la loro caratteristica di interessare un numero crescente di imprese in parallelo all’intensificazione dei processi di digitalizzazione. Una tendenza non dissimile avviene per le soluzioni cloud, o servizi cloud, che garantiscono efficienza, economicità e sicurezza nella gestione di grandi quantità di dati e, più in generale, si propongono come condizione essenziale per la dematerializzazione dei processi aziendali. Passando dalle fasi esplorative alle fasi applicative della digitalizzazione, la probabilità di adottare soluzioni cloud aumenta dal 20% al 50% (Figura 3).
L’intensità applicativa è però ferma a un livello del 22,1% (pur corrispondente al 41,2% della forza lavoro e al 46,0% del valore aggiunto delle imprese con almeno 10 addetti), una condizione penalizzante nei confronti internazionali che segnala una debolezza infrastrutturale e rallenta di fatto i processi aziendali di digitalizzazione. Il motivo per cui governi e istituzioni di ricerca considerano essenziale la diffusione dei servizi cloud è perché si tratta di servizi che l’impresa può acquistare dall’esterno senza vincoli di localizzazione e dimensione.
Il cloud rende, in sintesi, possibile quella scalabilità delle attività digitali che è condizione essenziale per consentire, soprattutto alle imprese medio-piccole, di affrontare la sfida della trasformazione digitale senza immobilizzare ingenti risorse per l’acquisto di calcolatori, server per l’immagazzinamento dei dati e software applicativo. Una verifica del livello “qualitativo” dei servizi cloud acquistati dalle imprese italiane è stata svolta nell’ambito del censimento, esaminando per quali finalità le imprese italiane con 10 addetti e oltre utilizzano soluzioni cloud.
Le imprese utilizzano servizi cloud con modalità più strumentali che strategiche, in certa misura non dissimili da quelle delle famiglie. Tra le cinque tipologie di servizi considerate, la più diffusa è infatti quella della comunicazione, ovvero posta elettronica e messaggistica (66,1% delle imprese cui fa capo il 70% degli addetti e del valore aggiunto), che è ormai quasi totalmente gestita via cloud. Non meno ovvii sono gli utilizzi di servizi cloud per l’archiviazione dati (57,3%, 69,5% in termini di addetti) e per l’uso via Internet di software per ufficio (48,5% delle imprese, 60,7% degli addetti).
Meno frequenti le soluzioni più professionali e orientate al business, come l’uso da remoto di software gestionale (38,3% con prevalenza delle imprese più grandi: 50,3% in termini di addetti e 51,6% di valore aggiunto) e l’analisi dei dati aziendali in remoto che, sebbene limitata al 12,1% delle imprese (che pesano pur sempre per il 28,8% degli addetti e il 32% del valore aggiunto) indica un processo già avanzato di digitalizzazione dei dati aziendali.
Come si articola la digitalizzazione dei processi aziendali
Un’altra chiave di lettura del processo di digitalizzazione è offerta dallo studio del grado di utilizzo di software gestionale. In un contesto di progressiva dematerializzazione dei processi aziendali, le imprese devono dotarsi degli strumenti necessari a gestire i nuovi flussi informativi digitali con gradi crescenti di automazione delle procedure routinarie. In questo senso, l’adozione dei software gestionali da parte delle imprese può essere vista come un ulteriore indicatore, questa volta “orizzontale”, del grado di digitalizzazione di un’impresa.
L’orizzontalità può essere individuata con riferimento all’attività caratteristica della singola impresa che prevede tipicamente processi di input, gestione interna dei flussi materiali e immateriali, trasformazione e di output. Ciascuna fase del processo produttivo è soggetta a digitalizzazione con l’adozione di soluzioni (software) specifiche ma, evidentemente, solo con l’automazione di più fasi dell’intero processo produttivo si raggiunge un livello di maturità digitale che garantisce significativi guadagni di produttività.
Il livello base di automazione, a cui accede il 67,2% delle imprese (66,8% per le imprese con 10-19 addetti e 78,9% per le imprese con 500 e più addetti) è quello della gestione della documentazione aziendale. Questo è evidentemente anche il risultato di un contesto economico dove i partner dell’impresa – inclusa la pubblica amministrazione – richiedono in misura crescente comunicazioni in formato digitale. La necessità di archiviare efficacemente grandi quantità di documenti, ma anche la possibilità di gestire tali informazioni da remoto (ad esempio, con modalità di telelavoro), rendono spesso questi software i primi gestionali a cui accedono le imprese, anche piccole e medie.
Un’altra esigenza chiave delle imprese, soprattutto manifatturiere e di alcuni settori dei servizi, è quella della gestione del magazzino e dei flussi materiali in entrata e uscita dall’impresa. I software che gestiscono questa funzione sono utilizzati in media dal 50,7% delle imprese: tale quota scende al 45,4% considerando le imprese con 10-19 addetti e raggiunge il 72,7% tra quelle con 500 addetti e oltre.
Le esigenze legate alla gestione della “catena di distribuzione di un’impresa” sono poi fortemente differenziate a livello dimensionale e settoriale.
La terza categoria di applicazioni, anch’esse molto diffuse, include quelle che automatizzano la gestione della contabilità (e degli adempimenti fiscali). Il 47,9% delle imprese dichiara di affidarsi a tali soluzioni (41,4% tra le imprese con 10-19 addetti, 76,3% tra le grandi).
Il grado di adozione di queste applicazioni diminuisce con l’aumentare della complessità degli applicativi gestionali, ma soprattutto con la necessità di riorganizzare l’intera struttura dell’impresa per garantire che essi siano alimentati da corretti e costanti flussi informativi.
La gestione della produzione, sia nelle imprese manifatturiere che in quelle dei servizi, non è facilmente automatizzabile, anche adottando sofisticate soluzioni digitali, in quanto richiede che sia predisposta una complessa rete di sensori per consentire il monitoraggio in tempo reale di tutte le funzioni produttive. Infatti, accede a queste tecnologie solo il 33,7% delle imprese (26,7% delle piccole, 51% delle grandi e 58,5% tra le imprese manifatturiere).
Un altro esempio è la gestione sistematica delle relazioni con la clientela, su cui investono solo le imprese che hanno superato una determinata soglia in termini di numero di clienti, complessità dei beni e servizi offerti e intensità delle transazioni, e che operano su mercati fortemente competitivi.
In questo caso, le più adottate sono le già citate soluzioni CRM (Customer Relationship Management), che gestiscono funzioni interne ed esterne all’impresa e sono state scelte dal 33,0% delle imprese (31,4% tra le piccole, 51,5% tra le grandi).
Un livello più specialistico riguarda quelle applicazioni finalizzate ad automatizzare (o supportare) la pianificazione aziendale piuttosto che la vera e propria gestione operativa dell’impresa. Si tratta, da un lato, delle applicazioni per la pianificazione delle attività di produzione e, dall’altro, delle già citate soluzioni ERP (Enterprise Resource Planning) per la pianificazione dell’intera gestione aziendale (e che, in realtà, spesso incorporano diverse funzioni presenti anche nei software “specializzati” citati in precedenza). Il software per la pianificazione della produzione è presente nel 23,1% delle imprese (16,1% nelle piccole, 48,2% nelle grandi), quello per la pianificazione gestionale, o ERP, nel 21,7% (17% nelle piccole, 54,5% nelle grandi).
Anche se la presenza di software ERP indica un elevato grado di maturazione digitale di un’impresa, l’utilizzo di questo indicatore nei confronti internazionali risulta poco utile per valutare il grado di integrazione orizzontale dei processi oggetto di digitalizzazione, per cui sarebbe opportuno analizzare diverse tipologie di software gestionali e di pianificazione.
Riguardo l’integrazione “orizzontale” dei diversi software gestionali, si conferma il quadro già delineato .
Le imprese che adottano il loro primo software gestionale si orientano verso applicativi per la gestione documentale o la contabilità industriale, che sono evidentemente le esigenze percepite come più pressanti. In una fase ulteriore emerge la necessità di incrementare l’efficienza nella gestione della supply chain, ovvero delle relazioni con i fornitori e del magazzino.
La gestione del processo produttivo e delle relazioni con la clientela (CRM) trovano spazio solo a un livello di integrazione più elevato perché si tratta già di applicazioni interconnesse con il sistema informativo aziendale e non possono operare in isolamento (stand-alone). L’ultima fase di integrazione riguarda la pianificazione della produzione e della gestione (ERP), soluzioni che sono efficacemente adottate solo nel contesto di un’impresa digitalmente “matura” o, comunque, con una gestione avanzata dei flussi informativi interni.
Gli effetti percepiti della digitalizzazione
Dal momento che il censimento offre un’istantanea del processo di trasformazione digitale delle imprese italiane essenzialmente riferito all’anno 2018, eventuali valutazioni sull’impatto economico e sociale di tale processo dovranno essere rimandate al momento in cui sarà disponibile – con un necessario ritardo temporale
– una chiara evidenza quantitativa sui relativi effetti nel medio-lungo termine. D’altra parte, le imprese hanno già una percezione di come gli investimenti digitali stanno influenzando le loro attività – e, in particolare, la loro produttività – e tale percezione è stata oggetto di rilevazione nel censimento.
Sono stati considerati sette effetti principali (cinque positivi e due negativi) che la digitalizzazione potrebbe avere sulla produttività d’impresa.
In merito agli effetti positivi, il 65,6% delle imprese, con 10 addetti e oltre, che hanno adottato almeno una tecnologia digitale nel triennio 2016-2018 ritiene che il digitale abbia agevolato la condivisione di informazioni e conoscenze all’interno delle imprese (86% delle grandi imprese). Sono invece soltanto il 40,9% quelle che hanno verificato una relazione positiva tra digitalizzazione e incremento dell’efficienza dei processi produttivi (imprese manifatturiere 52,3%).
Inoltre appena il 17,3% delle imprese pensa che la digitalizzazione faciliti l’acquisizione di conoscenze dall’esterno e il 10,4% che renda possibile ottenere dall’esterno servizi, materie prime e semi-lavorati di migliore qualità. Irrilevante (3,8%) è infine la percentuale di imprese che ritengono la digitalizzazione utile per incrementare le opportunità di esternalizzazione di funzioni produttive.
Riguardo ai due fattori potenzialmente negativi, le imprese italiane considerano entrambi irrilevanti: solo l’1,7% delle rispondenti considera un rischio la perdita di efficienza o produttività dovuta alle criticità della transizione mentre lo 0,6% non ritiene rischiosa la perdita di efficienza o produttività determinata da investimenti eccessivi in digitale.
La percezione positiva degli effetti della digitalizzazione è legata anche al grado di intensità dell’investimento in tecnologie digitali (espresso in termini di numero di tecnologie adottate). Una lettura di tali effetti percepiti – basata sulla distinzione delle imprese nei quattro livelli di maturità digitale precedentemente descritti – conferma che il grado di digitalizzazione influisce direttamente sulla percezione delle imprese.
Anche in questo caso, si tratta in realtà di un diverso grado di apprezzamento positivo dei vantaggi di adottare tecnologie digitali, in quanto gli effetti negativi sono quasi irrilevanti. Ѐ comunque interessante notare che le imprese “sperimentatrici” hanno una percezione dei vantaggi della digitalizzazione assai simile a quella delle imprese digitalmente “mature”: un segnale dell’efficacia di tali tecnologie almeno per quanto riguarda la circolazione di conoscenza (inclusi dati e informazioni gestionali) all’interno e all’esterno dell’impresa.
Digitalizzazione e formazione del personale
Tra le varie sfide che ostacolano il processo di trasformazione digitale delle imprese è da considerare con particolare attenzione la necessità di preparare adeguatamente il personale per un utilizzo efficace delle nuove tecnologie. Il censimento ha indagato la questione con uno specifico quesito finalizzato a verificare una relazione diretta tra l’adozione di una specifica tecnologia digitale e la somministrazione di una altrettanto specifica formazione professionale.
Dai risultati censuari emerge con chiarezza che l’adozione di software gestionali rappresenta ancora una sfida per molte imprese: in media, circa il 40% di esse necessita di formare ad hoc il personale per il suo utilizzo (72,6% per le grandi imprese, dove si può ipotizzare l’adozione di software più complessi o che richiedono una maggiore disponibilità di dati per operare) .
Una formazione specifica per l’uso di Internet è ancora rilevante ma in un contesto in cui, almeno per le grandi imprese, si può assumere che il personale sia già largamente auto-formato.
Ovviamente, l’auto-formazione può riguardare lo svolgimento di funzioni come “utenti” di Internet mentre resta essenziale una specifica formazione professionale per le figure che gestiscono e mantengono le reti. Soprattutto le grandi imprese segnalano, piuttosto, una vera emergenza formativa in tema di cyber-security (52,9%) che è, in media, la terza tecnologia digitale che richiede supporto formativo. Infine, le piccole e medie imprese – che hanno bassi livelli di adozione di tecnologie digitali applicative – non considerano rilevante la formazione su applicazioni come la simulazione tra macchine interconnesse, l’automazione industriale, i Big Data, la stampa 3D, l’Internet delle Cose o le tecnologie immersive.
Ovviamente, c’è da tenere conto che tali tecnologie sono spesso adottate da imprese medio-piccole con il supporto esterno di società fornitrici di tecnologia o di consulenza, mediante pacchetti che includono assistenza e formazione del personale. Infatti, il ricorso alla formazione su tali tecnologie è più elevato tra le grandi imprese dove la maggior parte dei processi è internalizzata.
Gli investimenti futuri in digitalizzazione
Alla luce delle tendenze emerse con riferimento al triennio 2016-2018, e tenendo conto del contesto economico e sociale in rapida evoluzione, può essere di interesse esaminare quali erano, nella fase pre-Covid-19, le aspettative delle imprese relativamente ai loro investimenti in tecnologie digitali tra il 2019 e il 2021.
Una quota significativa di imprese dichiara di voler mantenere elevati gli investimenti infrastrutturali (connessione a Internet, cyber-security) mentre per le tecnologie applicative – pur tenendo conto del loro diverso grado di diffusione a livello settoriale – quelle che le hanno inserite nei propri progetti di sviluppo sono sistematicamente sotto il 10%, escluso l’Internet delle Cose .
A livello settoriale, a parte il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, non emergono aspettative di investimenti significativi concentrati in singoli comparti. Vi sono però alcuni casi di investimenti mirati, ad esempio l’automazione/robotica e la simulazione nel settore manifatturiero che arriva ad interessare il 16-17% delle imprese dell’intero comparto. In generale, però, anche prima della crisi COVID-19, le imprese italiane non mostravano di essere pronte a un cambio di passo nei processi di trasformazione digitale.
In generale, le imprese sembrano orientarsi verso aggiustamenti limitati dei propri progetti di sviluppo, almeno è ciò che emerge nell’analisi per dimensione d’impresa.
Ad esempio, la classe 10-19 addetti è divisa in due cluster: uno caratterizzato da incrementi attesi rilevanti, ma a partire da livelli di diffusione inferiori al 10% (si tratta prevalentemente di tecnologie applicative); l’altro, riferito a tecnologie infrastrutturali, mostra livelli di diffusione in media con le altre classi dimensionali ma incrementi attesi estremamente bassi.
Con leggere differenze, questo schema è valido per quasi tutte le classi di addetti determinando, come già osservato, una limitata dinamica a livello di sistema .
Un’eccezione merita però di essere segnalata. Con riferimento a tre tecnologie applicative chiave – Internet delle Cose, automazione e robotica e analisi dei Big Data – il 50% delle imprese appartenenti alle classi dimensionali 250-499 addetti e 500 e oltre dichiara l’intenzione di mantenere un elevato tasso di incremento anche in presenza di tassi di diffusione già significativi per il contesto italiano.
Le competenze digitali del personale delle imprese
La digitalizzazione cambia la domanda di competenze del personale e fa emergere nuove priorità e potenziali criticità. Il tema dell’alfabetizzazione informatica, ad esempio, è trasversale a tutti gli ambiti sociali ed economici ma risulta cruciale in contesti lavorativi soggetti a intensi processi di transizione digitale.
Il tema è ovviamente complesso e una singola indagine statistica può cogliere solo alcuni aspetti del fenomeno.
I risultati ottenuti dal censimento sono stati distinti in quattro aree di competenza: alfabetizzazione digitale (A), articolata in tre competenze specifiche; comunicazione e collaborazione (B), articolata in tre competenze specifiche; sicurezza (C), articolata in due competenze specifiche; soluzione dei problemi (D), articolata in due competenze specifiche (Figura 9).
L’area di competenza relativa alla sicurezza (C) è quella considerata più rilevante dalle imprese rispondenti: il 77,2% (86,8% degli addetti e 90,9% del valore aggiunto) considera rilevante la capacità del personale di “proteggere i dati personali e la privacy” e il 75% (85,4% degli addetti e 90,3% del valore aggiunto) di “proteggere i dispositivi digitali da virus o attacchi esterni”.
Il livello di criticità di queste competenze non è elevato, la percentuale di imprese che considerano non adeguato il livello di competenza del proprio personale varia tra il 10,4% e il 12,4% (quote analoghe anche in termini di addetti e valore aggiunto).
La seconda area di competenza segnalata è quella della comunicazione e collaborazione (B). Il 71,7% delle imprese (84,5% in termini di addetti e 89,1% in termini di valore aggiunto) considera importante la capacità di “comunicare sul luogo di lavoro via e-mail o mediante connessioni digitali”; la percentuale scende al 63,7% (78,2% addetti, 83,8%% valore aggiunto) per la capacità di “condividere informazioni di lavoro attraverso le tecnologie digitali” e al 59% (73,9% addetti e 80,0% valore aggiunto) per “collaborare sul lavoro attraverso le tecnologie digitali”.
Questo blocco di competenze sembra largamente acquisito dal personale delle imprese rispondenti: la criticità è del 6% o inferiore.
Tra le restanti classi di competenza, quella relativa alla capacità di affrontare e risolvere problemi in ambito informatico (D), la capacità di “risolvere problemi tecnico-informatici sul luogo di lavoro”, considerata rilevante solo dal 58,7% delle imprese (72,1% addetti, 78,0% valore aggiunto) è però quella con il più alto grado di criticità: tale competenza è infatti ritenuta non adeguata dal 20,7% delle imprese (equivalenti al 14,4% degli addetti).
Quanto alla capacità di “individuare le esigenze dei colleghi ed elaborare adeguate risposte basate su tecnologie digitali”, è considerata dalle imprese poco rilevante (42,7% imprese, con 61,3% addetti e 68,1% valore aggiunto) probabilmente perché è un compito troppo “tecnico” ma comunque rappresenta un punto di criticità per ben il 15,5% dei rispondenti (12,4% degli addetti).
Le competenze informatiche di base non sembrano essere tenute in grande considerazione dalle imprese, forse perché ritenute largamente acquisite dal personale. La capacità di “ricerca, selezione e modifica di documenti digitali in qualsiasi forma” è rilevante per il 54,6% delle imprese, la “valutazione, analisi e utilizzo di dati, informazioni e contenuti digitali, anche scaricati dal Web” dal 48,3%, la “gestione, elaborazione e classificazione di dati, informazioni e contenuti digitali in ambiente Web” dal 45,7%. Anche nel caso delle competenze digitali di base i livelli di criticità sono bassi, inferiori al 9%.
Effetti della digitalizzazione sulla struttura occupazionale
Un altro tema strettamente legato alla diffusione delle tecnologie digitali è quello relativo al loro potenziale impatto sulla struttura occupazionale delle imprese in termini di mansioni. In generale, si suppone che la digitalizzazione, ma anche l’automazione, possano ridurre le mansioni più “routinarie” aprendo prospettive di sviluppo per nuove mansioni di tipo più creativo.
Nell’ambito del censimento, l’Istat ha potuto raccogliere alcune evidenze, anche se necessariamente condizionate da una prospettiva di breve periodo (con riferimento a cambiamenti attesi tra il 2019 e il 2021) per un fenomeno che dovrebbe essere correttamente analizzato in una prospettiva almeno decennale. Il quesito è stato posto a imprese che hanno effettuato investimenti in tecnologie digitali nel triennio 2016-2018 o prevedono di investire nel triennio 2019-2021 con riferimento alle loro aspettative.
In termini di mansioni, sono stati identificati cinque grandi gruppi a cui fa spesso riferimento la letteratura sul tema: mansioni professionali specializzate; mansioni di interazione e comunicazione; mansioni tecnico-operative; mansioni manuali non specializzate; mansioni manuali specializzate
Ovviamente, le mansioni tecnico-operative e quelle manuali non specializzate sono quelle più “routinarie” e, in quanto tali, più facilmente sostituibili, in teoria, in un processo di digitalizzazione/automazione. I risultati del censimento contraddicono, in realtà, tale ipotesi teorica (forse in relazione sia all’ancora scarsa “maturità” digitale delle imprese italiane che alla ridotta prospettiva temporale) .
Infatti, le mansioni con le migliori prospettive sembrano essere quelle tecnico-operative (incremento previsto nel 67,6% delle imprese, decremento previsto nel 20%) e ciò può indicare una domanda crescente di personale tecnico da parte delle imprese italiane. Seguono le mansioni manuali non specializzate, tipicamente routinarie (con un incremento previsto dal 61,3% e una diminuzione per il 27,6%) e le mansioni di interazione e comunicazione (+60,5%, -25%) messe anch’esse, in teoria, a rischio dalle nuove tecnologie.
Meno dinamiche appaiono in prospettiva le mansioni potenzialmente più creative. Quelle professionali specializzate si espanderanno per il 53,2% delle imprese e si contrarranno per il 32,6%. Maggiore turbolenza potrebbe invece investire le mansioni manuali specializzate, anche a causa della loro elevata eterogeneità: in crescita per il 49,1% delle imprese e in riduzione per il 42,4%.
Anche qui il fattore dimensionale influenza molto le risposte delle imprese: quelle con 10-19 addetti sono molto più pessimiste delle altre mentre le grandi prevedono un impatto della digitalizzazione sull’occupazione assai più contenuto. Tale discrimine può essere individuato anche nella valutazione della singola tipologia di mansione, come nel caso delle mansioni professionali specializzate che sono relativamente stabili nelle imprese con almeno 50 addetti mentre si fanno più a rischio nelle imprese sotto tale soglia.
Come la digitalizzazione modifica la selezione e la gestione del personale
Nel corso del processo di transizione digitale, le imprese sono chiamate a ridefinire sostanzialmente il modo in cui selezionano e gestiscono il personale. Nuovi compiti, nuove competenze e nuove figure professionali -in parallelo con l’obsolescenza di forme di lavoro del passato – devono indurre le imprese a vedere nei propri dipendenti un asset per raggiungere la maturità digitale. Il censimento ha voluto esplorare se alcuni cambiamenti di approccio dal lato delle imprese siano già visibili.
In generale emerge un quadro piuttosto conservatore delle pratiche di gestione del personale utilizzate dalle imprese italiane anche se, ancora una volta, le differenze per classe dimensionale sono evidenti.
Infatti, in risposta a una crescente domanda di competenze digitali, il 38,3% delle imprese (51,3% degli addetti e 55,1% del valore aggiunto) dichiara che presterà maggiore attenzione a tali competenze in fase di selezione del personale (60,1% tra le imprese con più di 500 addetti) mentre il 33,6% (44,5% degli addetti totali) prevede
di esternalizzare le funzioni digitalizzate utilizzando le competenze digitali di consulenti o collaboratori (che è soltanto la quarta opzione per le imprese con 500 addetti e oltre) . Inoltre, il 22,7% delle imprese (41,1% degli addetti) ha in programma di incrementare gli investimenti in automazione, sia nei processi produttivi che nelle funzioni di servizio.
Considerando che come quarta opzione (22,2% delle imprese, 28,9% degli addetti) le imprese hanno indicato l’intenzione di avvalersi, per quanto possibile, della disponibilità del personale all’autoformazione, ovvero all’acquisizione autonoma di competenze digitali, il quadro complessivo è quello di un sistema delle imprese che, a fronte di rilevanti investimenti tecnologici, fatica a tenere il passo con adeguati investimenti per la valorizzazione del capitale umano.
L’investimento sistematico in formazione digitale per aumentare le competenze del personale è, infatti, solo la quinta opzione indicata dai rispondenti (21,6% delle imprese, 40,7% degli addetti) anche se, significativamente, la seconda più rilevante per le imprese con 500 addetti e oltre (54,0% delle imprese, che vale il 59,6% degli addetti delle grandi imprese e il 65,0% del loro valore aggiunto). Ѐ infine residuale (2,0% delle imprese) la scelta di accelerare il turnover tra personale con competenze obsolete e nuovo personale con migliori competenze digitali.
Anche questi dati confermano che il processo di transizione al digitale delle imprese italiane non ha le caratteristiche che possano consentire a molte di esse di raggiungere, in tempi brevi, lo stadio di “maturità”.
La limitata dimensione d’impresa condiziona ancora fortemente il sistema produttivo, non tanto per l’acquisizione di tecnologie digitali infrastrutturali quanto per un pieno utilizzo delle potenzialità delle tecnologie applicative. Emerge la mancanza di una cultura dell’investimento in capitale intangibile, e in primo luogo in capitale umano, per il quale sarebbero peraltro accessibili molteplici forme di sostegno pubblico.
L’impatto economico delle piattaforme digitali
Il monitoraggio delle vendite elettroniche, già oggetto di indicatori annuali Istat, viene arricchito dal censimento con un focus sull’utilizzo, da parte delle imprese con almeno 3 addetti, di piattaforme digitali di intermediazione commerciale, ovvero i siti Web attraverso cui una percentuale crescente di famiglie e imprese acquista beni e servizi.
L’approccio adottato è quello di individuare e profilare non le piattaforme digitali – con sede in Italia o all’estero – in quanto tali, ma piuttosto i soggetti economici italiani che, in alternativa o in aggiunta ai tradizionali canali commerciali, vendono i loro beni e servizi anche tramite piattaforme digitali. Ciò rende possibile analizzare tali imprese da due punti di vista: uno economico, sulla base della loro classificazione settoriale e dimensionale, e uno merceologico, grazie alla tipologia di piattaforme digitali che utilizzano per le loro vendite.
Il censimento ha consentito quindi all’Istat di stimare che, nel 2018, 99.814 imprese con 3 addetti e oltre – di cui 75.206 con meno di 10 addetti – hanno messo in vendita i loro beni o servizi su almeno una piattaforma digitale. Considerando la popolazione delle imprese censite, si tratta di quasi un’impresa su 10 attiva su piattaforme digitali (9,7% di imprese con 3 addetti e oltre, 11,6% di imprese con almeno 10 addetti).
Il volume di attività generato da tali imprese sulle piattaforme digitali è stimabile – con riferimento, però, alle sole imprese con 10 addetti e oltre – intorno al 2,4% del fatturato totale 2018, per un valore complessivo superiore ai 44 miliardi di euro. I dati totali offrono un quadro del fenomeno che va però letto soprattutto con riferimento ai settori più direttamente coinvolti ovvero quelli dove la vendita di beni e servizi tramite piattaforme digitali sta divenendo una componente essenziale delle strategie di commercializzazione delle imprese.
Il comparto turistico e della mobilità è quello più direttamente interessato, è presente su piattaforme digitali l’80% delle imprese con oltre 3 addetti attive nei servizi di alloggi . Inoltre, considerando le imprese con almeno 10 addetti, proviene da piattaforme digitali il 24% del fatturato totale del settore (con riferimento, quindi, a tutte le imprese indipendentemente dalla presenza su una piattaforma), quota che sale al 27,7% a livello di singola impresa (ovvero con riferimento alle sole imprese che utilizzano piattaforme).
I risultati confermano che per le imprese di alcuni settori è assolutamente necessario confrontarsi con i propri concorrenti sulle piattaforme digitali ma tenendo attivi anche gli altri canali commerciali, tradizionali e online. Nel trasporto aereo, il 46,9% delle imprese utilizza le piattaforme (praticamente tutte le imprese che offrono servizi di trasporto alle persone) con tassi di fatturato anche più alti rispetto ai servizi ricettivi: 26% sul totale del settore e 30,7% come media a livello d’impresa per le imprese presenti su piattaforme digitali.
Un altro esempio è quello delle agenzie di viaggio, che rappresentano un interessante caso di doppia intermediazione: la presenza sulle piattaforme serve a entrare in contatto con clienti a cui fornire, insieme alla propria consulenza, anche servizi forniti da terzi. La presenza complessiva è del 38,9% riguardo al numero di imprese; i tassi di fatturato sono del 10,9% (totale) e del 25,1% (media d’impresa).
Scorrendo la lista delle attività economiche considerate si possono poi identificare altre tipologie ricorrenti. Una prima è rappresentata dai settori con una significativa presenza sulle piattaforme digitali ma le cui imprese realizzano un fatturato assai basso (o spesso quasi nullo) tramite esse (attività editoriali, commercio di autoveicoli, produzione di bevande e alimentari…) al solo fine di aumentare la propria visibilità sul mercato, anche in presenza di basse aspettative sui relativi risultati economici.
Una seconda tipologia riguarda invece le imprese che realizzano interessanti tassi di fatturato nonostante una presenza contenuta sulle piattaforme digitali (ad esempio, produzione di software, noleggio di macchinari, telecomunicazioni, trasporto marittimo e servizi informatici in genere). In questi casi si tratta di mercati dominati da grandi imprese che operano prevalentemente su piattaforme digitali specializzate; a prescindere dall’impatto economico a livello di settore, le imprese che occupano tali nicchie di mercato riescono, in media, a realizzare quote di fatturato via piattaforme tra il 15% e il 25%.
Una terza tipologia è quella dei settori in una fase iniziale, almeno in Italia, in merito all’utilizzo di piattaforme (ad esempio, il commercio di autoveicoli, le attività immobiliari, l’ingegneria civile e le costruzioni). Nell’incertezza su quale modello organizzativo si consoliderà per questi settori – comparazione delle offerte su piattaforme digitali che consentono di acquistare direttamente beni o servizi oppure sviluppo di siti Web che offrono solo la comparazione dei prezzi di vendita senza vendita diretta – si osserva che diverse imprese già raggiungono quote di fatturato significative (tra il 10% e il 20%) dalla loro attività su piattaforme digitali.
Vale, infine, la pena porre attenzione su due aspetti solo parzialmente messi in evidenza dai dati censuari. Il primo è quello dell’offerta di servizi professionali e tecnici. I dati riguardanti la vendita di servizi di ingegneria o di architettura oppure informatici sottostimano con molta probabilità il crescente ricorso a piattaforme digitali per acquistare servizi di consulenza per operazioni immobiliari, di costruzione o ristrutturazione, sviluppo software ma anche prestazioni mediche o consulenze legali. Ovviamente, molti di questi servizi sono offerti da professionisti che operano come imprese individuali e in quanto tali escluse dal censimento. La portata economica e sociale di questo fenomeno potrà essere quindi colta solo con rilevazioni settoriali.
Il secondo riguarda l’impatto limitato che le piattaforme digitali sembrano avere avuto nel 2018 sul settore della ristorazione: soltanto il 12,1% delle imprese ha dichiarato di utilizzarle e anche in termini di fatturato i risultati non sono brillanti: appena il 2,2% per l’intero settore (anche se solo con riferimento alle imprese con almeno 10 addetti) e il 12,8% come media a livello d’impresa. Su questi risultati incide senz’altro la dimensione media delle imprese, dal momento che gli operatori del settore utilizzano estesamente rapporti di lavoro non dipendente e ciò contribuisce a portare molte imprese fuori dal campo di osservazione censuaria.
Un ulteriore aspetto che meriterà di essere affrontato con indagini settoriali è quello della percezione, nel settore della ristorazione, del ruolo delle piattaforme digitali. Infatti, le piattaforme offrono un doppio servizio in questo settore: intermediazione commerciale e consegna dei pasti a domicilio. I modelli di business adottati in Italia dalle principali piattaforme rendono i due servizi difficilmente distinguibili (tra l’altro la quota pagata dal ristoratore copre i costi di entrambi) e possono indurre i titolari di imprese a non considerarsi pienamente coinvolti nell’attività di una piattaforma poiché vista essenzialmente come agenzia di consegna pasti.
Rispetto alla valutazione dei risultati, il 17,3% delle imprese con 10 addetti e oltre stima che l’attività sulle piattaforme digitali abbia consentito di incrementare il fatturato totale di oltre il 10% (18,2% per le imprese con 10-19 addetti). L’impatto economico è comunque da considerarsi limitato perché il fatturato di queste imprese è complessivamente pari solo all’11,9% del totale delle imprese con almeno 10 addetti.
Il rafforzamento della posizione competitiva, un risultato spesso determinato anche soltanto dalla presenza di un’impresa sul sito Web di una piattaforma digitale, è un risultato acquisito dal 41,1% delle imprese (45,9% in termini di fatturato) e risulta particolarmente rilevante per quelle con oltre 500 addetti (61,5% delle imprese), a conferma che, almeno in alcuni settori, le piattaforme digitali sono vetrine in cui è necessario essere presenti per essere visibili alla potenziale clientela. L’utilizzo delle piattaforme digitali è invece un obiettivo fondamentale per il 30,8% delle piccole imprese, al fine di garantirsi un volume di vendite che consenta di rimanere attivi sul mercato (33,5% per le imprese con 10-19 addetti, ma solo 18,1% in termini di fatturato).
La potenzialità più interessante offerta dalla quasi totalità delle piattaforme digitali di aprire a soggetti anche di piccole dimensioni aziendali un mercato potenzialmente globale – non è molto sfruttata dalle imprese italiane: soltanto il 3,5% (4,4% del fatturato totale) dichiara, infatti, di aver acquisito nuovi clienti all’estero con la sua presenza su una piattaforma digitale. Bisogna notare che il quesito si riferiva ai nuovi clienti mentre è certa la presenza su piattaforme digitali commerciali di imprese italiane che hanno già clienti residenti all’estero.
L’analisi sinora svolta sulle imprese italiane che operano con piattaforme digitali non ha considerato la natura delle piattaforme a cui accedono tali imprese. La ricostruzione del legame tra un’impresa, come identificata in un registro statistico ufficiale, e una piattaforma digitale è un’operazione assai difficile considerando la varietà dei rapporti commerciali che possono instaurarsi tra l’impresa e la piattaforma (soprattutto in relazione ai diversi servizi che l’impresa può acquistare da una piattaforma), la diversità dei modelli di business adottati dalle piattaforme e la localizzazione stessa della piattaforma che, spesso, ha sede all’estero.
Senza adottare distinzioni predefinite in base alla tipologia o alla localizzazione delle piattaforme digitali considerate, si può osservare che la maggior parte delle imprese italiane con oltre 3 addetti che utilizzano piattaforme digitali (5,4% del totale dei settori considerati, pari a oltre 28 mila imprese, 10% delle imprese tra i 10 e 100 addetti) è presente su piattaforme internazionali che vendono servizi turistici (es. Booking.con, Expedia, TripAdvisor) o servizi di affitto a breve termine (es. AirBnB).
Esistono però anche piattaforme digitali italiane che, prevalentemente su base territoriale, svolgono attività di intermediazione sul Web tra strutture ricettive del territorio e potenziali clienti .
Un secondo gruppo, che comprende prevalentemente imprese manifatturiere, ma anche imprese del commercio che vendono attraverso piattaforme digitali, è composto da imprese che vendono i propri prodotti su piattaforme commerciali multi-settore (4% del totale delle imprese, 7% di imprese tra 250 e 500 addetti, 8,2% oltre i 500 addetti). L’esempio più comune in questa categoria di piattaforme è l’Amazon Marketplace (non Amazon in quanto rivenditore di beni acquistati dai propri fornitori), insieme a Ebay ed Etsy.
Un terzo gruppo (2,9% del totale dei settori considerati) include le imprese della ristorazione che utilizzano piattaforme per la prenotazione e la consegna di pasti a domicilio, come Deliveroo, Just Eat, Uber Eats e alcune piattaforme italiane operanti prevalentemente su base regionale.
Un quarto gruppo, che include circa 11 mila imprese con almeno 3 addetti (2% del totale e prevalentemente sotto i 10 addetti), è piuttosto composito, essendo riferito alle imprese che offrono i loro servizi su piattaforme digitali che vendono servizi professionali (es. ProntoPro o Fazland).
Un quinto gruppo comprende le imprese che producono e/o vendono prodotti per la casa, inclusi mobili, e prodotti del settore della moda. Sono l’1,3% delle imprese dei settori considerati per un totale di circa 5 mila imprese. Per quanto riguarda l’intermediazione, le piattaforme esistenti (es. Westwing) si stanno rapidamente
trasformando in e-shop tradizionali, quindi rivenditori, lasciando spazio a piattaforme commerciali gestite direttamente da consorzi di produttori.
Un sesto gruppo riguarda la vendita online specializzata di elettronica, ottica e strumentazione scientifica, settore dove operano anche piattaforme digitali nazionali. Le imprese interessate sono necessariamente poche, circa 3.500, lo 0,9% dei settori considerati.
Nel trasporto di persone (incluso il trasporto aereo) le piattaforme digitali gestiscono poco più di mille imprese (lo 0,4% di un gruppo molto composito di settori considerati nel censimento). Le piattaforme più attive sono quelle internazionali specializzate in servizi turistici e, soprattutto, nella vendita di biglietti aerei (es. Volagratis, Skyscanner).
Infine, un ultimo gruppo riguarda la consegna di prossimità di prodotti vari (es. Glovo, TakeMyThings), evidentemente utilizzata più da privati per le loro consegne, che da imprese (0,2% sul totale delle imprese).
Anche da questa sintetica rassegna emerge il quadro di un settore molto dinamico per cui è difficile prevedere quali potranno essere gli sviluppi di lungo periodo, pur all’interno di una tendenza generale all’espansione delle attività commerciali via Web. Ad integrazione del quadro fornito dal censimento, l’approfondimento di alcuni temi – anche di rilievo politico-normativo, come la regolamentazione del lavoro all’interno delle piattaforme digitali – sarà possibile solo attraverso il ricorso a ulteriori indagini settoriali.