Digital Europe, ecco il programma per la trasformazione digitale dell’Unione Europea

Sicurezza informatica, intelligenza artificiale, competenze digitali avanzate, supercalcolo e la garanzia di un ampio uso delle tecnologie digitali nella società e nell’economia. Questi gli obiettivi di Digital Europe, il programma di finanziamento UE per favorire la trasformazione digitale dell’Unione Europea che può contare su un budget complessivo di 7 miliardi e mezzo di euro da spendere fino al 2027.

Gli obbiettivi strategici che si inseriscono in una strategia europea più ampia e hanno come quadro di riferimento il MFF (Multiannual Financial Framework), ossia il bilancio pluriennale dell’UE, che delinea le strategie e le risorse disponibili per il periodo 2021-2027, sono i seguenti:

Horizon Europe,  il programma quadro dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione per il periodo 2021-2027
il programma CEF (Connecting Europe Facility), che si occupa di promuovere investimenti nelle infrastrutture strategiche, come banda larga e 5G
Creative Europe, il programma dedicato all’industria creativa e ai media
EU4Health, il programma di investimenti per la digitalizzazione del settore sanitario
la politica di coesione dell’Unione Europea, in riferimento agli obiettivi di sviluppo della rete di connettività (per ridurre le disuguaglianze tra i Paesi membri), di sostegno alle imprese e di sviluppo delle competenze digitali la strategia di trasformazione digitale del settore agricolo, che punta a sfruttare i Big Data per la politica agricola comune (CAP)
gli strumenti del Recovery and Resilient Facility (RRF), lo strumento europeo che mette a disposizione un totale di 723,8 miliardi di euro per la ripresa degli Stati membri dopo la pandemia

InvestEU, lo strumento di finanziamento per stimolare gli investimenti europei

Il work program per il biennio 2021-2022 indica le aree di intervento su cui l’UE aprirà dei bandi per promuovere la partecipazione di imprese private, affianco a soggetti comunitari:
High performance computing (HPC), gestito dall’Iniziativa europea sull’HPC (EuroHPC JU)
cyber security, che sarà gestita dall’ECC (European Cybersecurity Competence Network and Center), l’iniziativa europea che punta a creare un ecosistema industriale e di ricerca interconnesso a livello europeo sulla cyber sicurezza. In attesa che l’ECC sia operativo, il work program sarà gestito, ad interim, dal DG Connect, la Direzione generale della Commissione che si occupa delle politiche dell’Ue in materia di mercato unico digitale, sicurezza di Internet e scienza e innovazione digitale gli European Digital Innovation Hub (Edih), per cui è stato individuato un work program separato, in quanto le call che li riguardano hanno criteri diversi (gestiti da DG Connect)  main work program (il programma di lavoro principale), che copre obiettivi più specifici, gestito da DG Connect e EA HaDEA (l’agenzia esecutiva europea per la salute e il digitale).

Il main work program si concentrerà su quattro aree strategiche: l’Intelligenza Artificiale, cloud, i dati e sviluppo di programmi formativi (master) per le competenze digitali avanzate; azioni di cybersecurity e diffusione e miglior uso delle tecnologie (azioni a sostegno del Green deal, Blockchain, servizi pubblici e fiducia nella trasformazione digitale).

Le risorse
Vista l’entità degli interventi programmati, questi non saranno attivati contemporaneamente, ma saranno divisi in tre call. Le risorse complessive stanziate per il biennio ammontano a 1,38 miliardi di euro. Per la prima call – aperta lo scorso 17 novembre – sono stati stanziati circa 415 milioni di euro. Per la seconda, che sarà avviata nel primo trimestre del 2022, sono stati stanziati circa 250 milioni di euro e per la terza (che si aprirà nel terzo trimestre del 2022) circa 170 milioni di euro.




L’e-leadership per i manager della Sanità che si innova

Il mondo del lavoro si sta trasformando a causa delle nuove tecnologie, ma questo cambiamento non coinvolge solamente gli strumenti tecnologici, muta il ruolo dei “leader”, trasformandoli in “e-leader”. Per far si che la digital transformation non fallisca, ci deve essere anche un’evoluzione culturale e organizzativa dell’azienda e dell’imprenditore; per questo è fondamentale il ruolo dell’e-leader, perché capace di motivare e guidare al cambiamento, per poi raggiungere gli obiettivi preposti.

L’e-leadership propone un nuovo approccio, spronando sia il singolo individuo, che il team, ad abbracciare l’evoluzione.

I leader del domani quindi, per essere e-leader dovranno avere una spiccata propensione per l’innovazione, essere poliedrici e versatili e ovviamente possedere competenze digitali.
I leader digitali hanno l’opportunità di utilizzare la tecnologia per cambiare il modo di fare business:
captando in anticipo come l’azienda potrà eccellere grazie all’uso della tecnologia
organizzando un chiaro percorso di digital transformation.

La definizione di e-leadership è abbastanza intuitiva, ovvero vedere la leadership in chiave digitale. La trasformazione da leadership a e-leadership fa capire come il digitale si sia inserito nel mondo del lavoro e nella quotidianità. Cambiare un’idea ormai consolidata non è mai semplice, ma bisogna farlo per evitare di rimanere indietro ed essere svantaggiati, rispetto a chi abbraccia il cambiamento.

C’è sempre stato un gap tra l’utente e gli esperti in ambito informatico e digitale, ed è per questo che nasce l’e-leadership, per colmare questo divario di conoscenze.

L’e-leadership indica una figura con grandi doti di comunicazione, che sa coinvolgere i colleghi sulle iniziative dell’azienda, che riesce a motivare chi gli sta intorno, e che ha indubbiamente le competenze necessarie nel digitale; è una persona sempre aperta al cambiamento, infatti è sempre al passo con la tecnologia e riesce a trasmettere questa voglia di cambiamento a tutti. Deve essere una persona molto preparata nel business, perché solo conoscendo il contesto in cui lavora, può individuare al meglio il cambiamento introdotto con l’avvento del digitale.
L’e-leader è un professionista dalle mille sfaccettature e il suo profilo è un insieme di competenze in continua evoluzione.

L’e-leader non solo deve avere competenze digitali, ma dovrà anche prestare attenzione nell’ambito dei dati e della sicurezza utilizzando gli strumenti che lui ritiene più opportuni per la gestione. Le competenze di e-leadership richieste sono le soft skill come: comunicazione, pianificazione e organizzazione.

L’e-leader deve essere in grado di avere una visione orientata al futuro e deve saper utilizzare le nuove tecnologie, non solo ottimizzando l’esistente, ma soprattutto anticipando bisogni e dinamiche future.

Dunque l’e-leader deve essere abile nel gestire al meglio le risorse tecnologiche presenti e future, con l’intenzione di ottimizzare costi e tempo, e saper gestire in maniera efficace il suo team.

Per quanto riguarda le competenze del mondo digitale, l’e-leader deve conoscere: la sicurezza IT: ovvero conosce i principali strumenti per la gestione della sicurezza online
le applicazioni: conosce e sa utilizzare le applicazioni in maniera tradizionale, ma anche basate sui dispositivi mobili i dati: è informato sul valore dei dati e conosce i principali strumenti tecnologici per la gestione e condivisione l’innovazione digitale: crede nelle potenzialità del digitale per ottimizzare i tempi progetti di innovazione: conosce le principali metodologie e processi che caratterizzano l’innovazione digitale.

Come acquisire le competenze digitali
Spesso sentiamo parlare di competenze digitali, ma cosa sono? E perché sono diventate indispensabili all’interno dell’azienda? Le competenze digitali consistono nel saper utilizzare con dimestichezza gli strumenti informatici, e sono caratteristiche ormai indispensabili sul posto di lavoro. Le aziende classificano i dipendenti in base a tre livelli:
base: dipendenti con basse conoscenze tecnologiche
medio: soggetti che hanno una formazione digitale idonea per svolgere mansioni utilizzando strumenti digitali
avanzato: professionisti del settore, come per esempio i programmatori informatici o manager nel marketing digitale.

Se in passato non era necessario avere queste competenze, adesso le aziende sono sempre più alla ricerca di utenti con skill digitali medio-alte.

Ci sono diverse metodologie per apprenderle, grazie a:
università
master
portali online
corsi di specializzazione

E-leadership: dote innata o appresa?

Ci sono due teorie riguardo questo argomento, c’è chi pensa che esista una particolare attitudine innata, e chi invece sostiene che anche senza particolari doti, si possa comunque emergere raggiungendo qualsiasi tipo di obiettivo, basta impegnarsi ed essere fortemente motivati. Ovviamente può esserci una predisposizione al mondo digitale, ma tutti possono cimentarsi e acquisire competenze digitali; un bravo e-leader deve essere ferrato nel spiegare, motivare, esercitare un’influenza positiva e accompagnare il collega al raggiungimento del suo traguardo.
Senza ombra di dubbio i migliori e-leader sono coloro che hanno una combinazione di abilità innata e abilità apprese; ma non tutti quelli che sono “già bravi in qualcosa” hanno desiderio di apprendere e crescere, a volte per scarsa curiosità, ma non bisogna mai dare un limite alla conoscenza, non si deve mai smettere di essere affamati di sapere.
I punti chiave per un’efficace leadership digitale quindi sono: la capacità di coinvolgere attraverso gli strumenti digitali che si hanno a disposizione, creare condizioni per sperimentare, stimolare e responsabilizzare e fornire una visione di obiettivi finali da poter raggiungere.
Un bravo leader digitale deve saper anticipare le tendenze di mercato per ottimizzare tempi e costi, in periodi turbolenti. L’e-leader combina forti capacità organizzative e di comunicazione con doti digitali, anche grazie alla sua flessibilità al cambiamento e innovazione. Per sopravvivere nell’era del digitale, è necessario sviluppare competenze digitali, che possono portare a grandi risultati e soddisfazioni, se guidati da mani esperte.

Quali competenze per i manager della Sanità?
Nell’attuale contesto economico e sociale le nuove tecnologie informatiche e di telecomunicazioni vengono ad assumere un ruolo pervasivo, in grado di modificare le attività economiche delle imprese e il comportamento dei singoli individui. Nel nuovo modello di sviluppo, assume quindi grande rilievo l’alfabetizzazione generalizzata alle tecnologie dell’informazione.
AICA (Associazione italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico) in collaborazione con SDA Bocconi, ha avviato nel 2004 un’indagine focalizzata su un’area di grande rilevanza sociale, quale è la Sanità, avendo ben chiaro che gli obiettivi di efficienza e produttività assumono, in questo settore, connotazioni assai particolari che lo distinguono dagli altri comparti economici.
L’Ignoranza Informatica in Sanità (Il “non sapere” informatico) comporta il rischio di un mancato adeguamento delle specifiche professionalità a un ambiente che necessariamente diverrà più complesso e che comporta anche dei costi di improduttività.
Risulta, in particolare, come il personale medico sanitario sia quello che più potrebbe contribuire all’aumento di produttività dell’intero sistema. La maggioranza dei professionisti è pronta al cambiamento e la consapevolezza del valore d’impiego delle tecnologie nei processi di diagnosi e cura, non solo a livello gestionale e formativo, è acquisita e deve confrontarsi con nuove competenze da acquisire, soprattutto tecnologiche.
Per tanti medici e professionisti questo “obbligo alla digitalizzazione” è visto come un peso.

Spesso si confondono le “competenze digitali” con le competenze di e-Leadership, ma con qualche esempio diventa facile capire la differenza: che una segretaria sappia usare uno smartphone, un Personal Computer, il pacchetto Office, installare un’App e proteggersi dai virus, è una condizione base per l’assunzione; che un manager abbia le stesse competenze non è un obbligo, senza sarebbe solo un vecchio manager, ma il vero danno aziendale si evidenzia quando quel manager si dimostra incapace di guidare un Team che lavora con strumenti digitali, quando i report debbono essergli stampati uno ad uno. Ma quando quel manager si dimostra incapace di capire le opportunità offerte dalla trasformazione digitale o si lascia fuorviare dai fornitori questo è un problema serio.

Nella Sanità il management apicale, la Direzione strategica (costituita generalmente dal Direttore Generale, Direttore Sanitario, Direttore Amministrativo) controlla con l’aiuto di un piccolo staff, circa un miliardo di euro per ciascuna azienda sanitaria; ipotizzando che, come è noto, il 70% sia destinato agli stipendi, esistono certamente spazi per finanziare la trasformazione digitale, se si sapesse guidarla.
Anche senza immaginare il coinvolgimento in primis della direzione strategica, i Capi Dipartimento, i Direttori di Distretto, i Direttori di Unità Operative complesse e persino i Direttori di Unità Operative Dipartimentali, possono modificare, utilizzando l’ICT per migliorare efficacia, efficienza e appropriatezza, i processi di diagnosi e cura, anche con modelli “bottom up”, proponendo alla Direzione Strategia PDTA (percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali) innovazioni con il supporto delle tecnologie digitali.
Sono spesso frenati dalla paura che nasce dall’ignoranza, dai pericoli legali che esistono solo nelle loro teste, dalla mancata conoscenza di esperienze di successo e da una mancata fiducia nel digitale.

Gli elementi chiave sono legati al fatto che oggi:

Non è prevista alcuna competenza di e-Leadership abilitante per il top management del SSN
Non sono previste incentivazioni alla formazione in questo settore e di conseguenza esiste solo una minima offerta di formazione di livello universitario per una vera e-Leadership per il manager sanitario
Si continua a parlare del tema sbagliato, le competenze digitali e non della capacità di LEADERSHIP digitale, che vuol dire guidare il cambiamento, non (solo) saper usare un Personal Computer, un tablet o uno smartphone

Queste competenze digitali non fanno normalmente parte del percorso di studio e formazione.

Servono quindi politiche comuni e condivise di adozione di strumenti ICT e soluzioni di tipo “eHealth” che, combinate con opportuni cambiamenti organizzativi e con l’acquisizione di nuove skill, producano risparmi e aumenti di produttività (riduzione degli errori medici, attenuazione delle cure non necessarie, diminuzione delle file d’attesa, riduzione materiale cartaceo, ecc.) che possono incidere positivamente sui bilanci sempre più esigui delle regioni.

La questione più importante è stare sempre al passo con l’evoluzione e non rimanere mai indietro!




Vaccino, terza dose e privacy: i chiarimenti del Garante

La previsione della somministrazione di una terza dose di vaccino accende, ancora una volta, i riflettori sulla privacy e rende necessario l’intervento del Garante.

Alla base di questa nuova “querelle” le affermazioni di Guido Bertolaso, coordinatore della campagna vaccinale della Lombardia, rilasciate a margine di un evento organizzato presso l’Ambasciata di Israele a Roma, secondo il quale la privacy limiterebbe la possibilità di chiamare e sollecitare gli assistiti alla somministrazione della terza dose di vaccino.

Ancora una volta la privacy viene additata di essere inutile ostacolo che rallenta o impedisce attività di vario genere, invocando, per contro, le molteplici attività di marketing che “subiamo” quotidianamente (secondo quanto riportato dalla stampa le parole di Bertolaso sarebbero “Il Green Pass è la punta dell’iceberg di un dramma che si chiama privacy: ma di che cosa stiamo parlando, veniamo ascoltati e chiamati per qualsiasi pubblicità e poi non possiamo neanche chiamare direttamente le persone per sollecitarle a fare la terza dose perché violiamo la privacy. Non fatemi parlare di privacy perché altrimenti rischio qualche denuncia”).

Emerge in maniera evidente e incontrovertibile come, per l’ennesima volta, la privacy viene invocata a sproposito, facendo confusione tra aspetti che devono essere considerati in modo autonomo perché concettualmente diversi.
È dovuto intervenire, quindi, il Garante per fare chiarezza e per ribadire, ancora una volta, che nel caso di chiamate per la somministrazione della terza dose di vaccino non si viola la privacy.

Nel comunicato del 5 novembre [doc web 9715558] si legge testualmente “L’Autorità ribadisce quindi che le iniziative volte a promuovere la vaccinazione siano realizzate attraverso gli operatori del Servizio sanitario nazionale, coinvolgendo, auspicabilmente, i medici di medicina generale, a cui è nota la situazione sanitaria degli assistiti, anche riguardo ad aspetti che sconsigliano la vaccinazione in assoluto o temporaneamente. L’Autorità ricorda infatti che, a tutela della riservatezza degli assistiti, le iniziative per promuovere e sollecitare la terza dose di vaccino, non possono avvenire attraverso altri organi o uffici amministrativi regionali o comunali”.
Nessuna violazione della privacy, quindi, per il richiamo per la terza dose di vaccino.
Come anticipato, inoltre, la necessità di contattare i cittadini per la somministrazione della terza dose non può in alcun modo essere equiparata alle chiamate “per qualsiasi pubblicità”.

Queste ultime, infatti, rientrano tra le attività di marketing per le quali l’utente deve aver fornito il proprio consenso e, nell’ipotesi in cui l’attività venga effettuata senza questa indispensabile base giuridica, l’operatore è esposto alle sanzioni previste dal Regolamento europeo (l’art. 83 prevede sanzioni amministrative fino 20 milioni di euro o al 4% del fatturato annuo).

Chissà da dove deriva quel consenso che, ipotizziamo sia un’attività lecita, consente all’operatore di chiamarci “per qualsiasi pubblicità”. Abbiamo letto le condizioni di contratto? Abbiamo letto le privacy policy dei siti che consultiamo? Delle app che utilizziamo? Cosa abbiamo accettato? Lo sappiamo? La risposta è negativa. Non lo sappiamo perché non leggiamo, non ci fermiamo e non prestiamo la dovuta attenzione alla tipologia di dati che forniamo e alle finalità per le quali verranno utilizzati. Salvo poi lamentarci se riceviamo “qualsiasi pubblicità” e invocare la violazione della privacy a giustificazione di comportamenti errati di cui siamo noi i principali artefici.




Monnezza 2.0, la gestione dei rifiuti in chiave digitale

Era il 1987 e Aldo Fabrizi,visibilmente commosso da quella commozione che soltanto le emozioni ingenue di un anziano vicino alla fine del viaggio può esprimere, fece un’ultima apparizione in televisione, recitando un sonetto ispirato alla celebre canzone “Buongiorno tristezza”, cantata da Claudio Villa. Il sonetto s’intitolava “Buongiorno monnezza” ed era una triste ode alla situazione imbarazzante della Capitale.

Bongiorno monnezza,
è l’alba e te ritrovo nella via,
è inutile ch’ aspetti,
‘n ce sta nissuno che te porta via.
Nell’aria che olezza
i variopinti montarozzi tuoi
ovunque tu sei
raggiungono l’altezza di un tramvai
vagano
a centinaia i gatti intorno a te…
chiedono
i forestieri, al vigile: “Scusi, che monumento è?”
Ma è tutta monnezza, è un’aria di folclore e di poesia
induce il turista a rimontà sul treno e scappà via

Da quel lontano giorno, sono passati più di 30 anni, il mondo è cambiato grazie alla digitalizzazione, ma la gestione dei rifiuti è rimasta tale e quale e “Buongiorno monnezza” è quanto di più attuale ci possa essere: un’ode efficace all’incapacità dei dirigenti e degli operatori che lavorano nelle aziende in cui viene gestito il ciclo deidei rifiuti. Tutto sommato, la differenza tra la gestione dei dati e la gestione dei rifiuti non è poi tanto diversa: può sembrare paradossale, ma entrambi, seppur per aspetti diversi, hanno un valore enorme e creano ricchezza. Il nuovo petrolio, direbbero i giornalisti del qualunquismo un tanto al chilo. I dati hanno un ciclo di vita che inizia dalla raccolta e termina nella produzione di conoscenza. Per i rifiuti vale lo stesso ragionamento: il loro ciclo di vita inizia dalla raccolta e termina nella produzione di nuovi prodotti, o materiali, attraverso il riciclo.

E il ciclo può terminare solo nel riciclo perché, c’è voluto del tempo per capirlo, le risorse di questo pianeta non sono infinite. Se per i dati, molto faticosamente, si tentano goffi tentativi di industrializzazione del ciclo produttivo, per i rifiuti, in molte città italiane, il problema è rimasto inchiodato alla raccolta e ai variopinti “montarozzi” di sacchi colorati, depositati fuori dai cassoni. Alcuni giorni fa, è apparsa sui giornali locali una notizia confortante: l’AMA, l’azienda municipalizzata che gestisce i rifiuti a Roma, ha pianificato la sostituzione totale dei vecchi cassonetti adibiti alla raccolta dell’immondizia.

Finalmente, ho pensato, e la mia mente ingenua, che soffre di visioni digitali, è andata subito ai contenitori smart o smart bin: connessi a internet, collegati a un sistema informativo a cui trasmettere i dati, autoalimentati dai pannelli solari, geolocalizzati, muniti di videocamere e sensori attraverso i quali misurare il peso, il volume, l’umidità, la temperatura e la quantità di rifiuti raccolti. Ho visto cittadini che, attraverso un’app a cui si accede tramite SPID, invece di fare le contorsioni per aprire dei coperchi mal progettati, ne comandavano l’apertura elettrica grazie a un motore alimentato da un accumulatore posizionato sul fondo del cassone e ricaricato dall’energia solare.

Ho visto sistemi informativi e di monitoraggio attraverso cui analizzare i dati e gestire una raccolta intelligente sulla base dell’effettivo stato di riempimento dei cassoni, ho visto notifiche e alert, tracciati dinamici e aggiornati in tempo reale da fornire agli operatori al posto dei giri approssimativi programmati dal capo squadra. Ho visto dashboard interattive attraverso cui modulare le tasse in base alla reale produzione dei rifiuti prodotti dai cittadini e dalle aziende e – ma quest’ultimo punto mi rendo conto che è abbastanza utopico- un sistema di tracciamento attraverso il quale capire in cosa (e da chi) vengono trasformati gli imballaggi e gli scarti, per misurare il valore dell’immondizia e l’efficienza dei sistemi di gestione e di raccolta attraverso degli indicatori prodotti dai dati raccolti.

Ho visto sistemi di intelligenza artificiale che identificano il tipo di rifiuto e registrano l’utilizzo improprio dei contenitori, sanzionando automaticamente gli “zozzoni” di turno. Ho visto sistemi di controllo pubblici delle aziende municipalizzate attraverso i quali far emergere le incapacità e le inefficienze dei dirigenti e dei dipendenti, e progetti di impianti di raccolta e trattamento dimensionati adeguatamente sulla base della produzione complessiva della spazzatura. In poche parole, ho visto come l’IOT (Internet Of Things) possa essere davvero utile per migliorare la vita nelle città in cui viviamo. Tutto ciò, in altre parti del mondo già esiste.

Dopo aver letto il titolo, le visioni digitali si sono ridotte a una triste presa di coscienza: il sonetto di Aldo Fabrizi rimarrà attuale per molti anni ancora. I nuovi contenitori, rispetto ai vecchi, di diverso avranno solamente il colore. Saranno colorati in base al tipo di rifiuto che dovranno ospitare. Una colorazione più efficace, per facilitare la raccolta differenziata. Naif. In linea con le direttive europee.

Tutto qua. Come se i romani fossero talmente deficienti, dopo oltre 15 anni di utilizzo, da non aver capito qual è il contenitore adatto a un certo tipo di rifiuto. I cittadini si lasciano andare al degrado se vengono costretti a vivere in un ambiente degradato. La storia, soprattutto quella della civiltà greca, dovrebbe aver insegnato cosa significhi coltivare la bellezza. I rifiuti abbandonati favoriscono l’inciviltà e l’abbandono di altri rifiuti. È vero, c’è una piccola parte di cittadini incivili che abbandona i rifiuti ingombranti davanti ai cassonetti: per questo le videocamere e un sistema efficiente di sanzioni sarebbero fondamentali.

Eppure, sui nuovi cassonetti non ci sarà nemmeno la vecchia tessera con la banda magnetica, ormai usata da più di vent’anni in alcuni comuni, per identificare e accertare il numero di utenti che utilizzano un certo contenitore della spazzatura e programmare una raccolta più organizzata. Un po’ di dati, sull’immondizia, servirebbero, quantomeno per non trovarsi sistematicamente nelle situazioni documentata tristemente ogni giorno dai cittadini.

 

C’è da dire che questa situazione a dir poco nauseabonda non è confinata soltanto alla Capitale, che ha un’estensione territoriale pari alla somma delle superficie di tutte le città metropolitane (con tutte le difficoltà gestionali che ne conseguono), ma si verifica in maniera ricorrente in molti altri centri urbani di grandi dimensioni. Però, seppur su una scala diversa, in termini di utenza, estensione territoriale e quantità di rifiuti prodotti, a Milano la situazione




L’industria dei dati pubblici, il motore della riforma della PA

Aperti, aggiornati, strutturati, machine readable e corredati dai metadati: i dati prodotti dalle Pubbliche Amministrazioni, per essere realmente utilizzabili, dovrebbero avere almeno queste caratteristiche. Sono decenni, ormai, che si sente parlare delle numerose possibilità offerte dai dati e delle ricadute, in termini di conoscenza e di benessere collettivo, conseguenti alla loro condivisione.

Eppure, nonostante nel settore privato sia evidente il valore attribuito ai dati, talmente elevato da essere “pagato” con un corrispettivo in servizi gratuiti di ogni tipo, il settore pubblico sembra ancora troppo inconsapevole delle potenzialità informative di cui dispone e impreparato rispetto alle politiche da attuare.

In realtà, l’impreparazione è più che altro dovuta a una specie di ostruzionismo burocratico e formale che impedisce di definire degli accordi snelli e veloci tra le amministrazioni. Per questo, la condivisione dei dati, prima di arrivare alle questioni tecnologiche riguardanti la cooperazione applicativa, viene ostacolata da protocolli d’intesa manzoniani firmati e controfirmati da dirigenti, direttori e presidenti, che, nel migliore dei casi, richiedono mesi di tempo per essere formalizzati. Nel peggiore, le trattative terminano con un nulla di fatto.

C’è stato un periodo, circa quindici anni fa, in cui parlare di condivisione e open data andava di moda: chiunque si lanciava in riflessioni fantasiose e proiezioni spericolate di ogni tipo, a volte veniva perfino interpellato chi ne sapeva realmente qualcosa e che, proprio per questo motivo, è stato escluso dai consessi importanti. Poi, la moda è passata e la questione open data è stata considerata più o meno risolta.

Anche perché si è palesata una parola sicuramente più comunicativa, misteriosa e affascinante, il termine “big”, che ha avuto il potere di arrestare il processo di diffusione e di condivisione dei dati: tutto si è fermato ad alcune esperienze virtuose e a qualche file di testo che ancora resiste, eroicamente appeso alle pagine di un sito dimenticato, come una vecchia canottiera a costine stesa sui fili arrugginiti di una casa abbandonata. Come spesso accade, la normativa esiste ed è chiara: l’articolo I del CAD prevede che i dati aperti debbano essere:

disponibili con una licenza o una previsione normativa che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato;
accessibili attraverso le tecnologie digitali, comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti e provvisti dei relativi metadati;
resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie digitali, oppure resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione (salvo quanto previsto dall’articolo 7 del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36).

A dispetto delle norme, però, la situazione reale è ben diversa. In primo luogo perché all’interno delle PPAA non sembrano esserci molte persone che conoscano approfonditamente i dati e il loro ciclo di vita e siano in grado di attuare strategie di condivisione stabili e di lungo periodo. I dati prodotti e condivisi dalle istituzioni, almeno di quelle che fanno parte del Sistema Statistico Nazionale, dovrebbero garantire la qualità, la completezza dei metadati e il rispetto degli standard internazionali di diffusione.

Per produrre dei dati con queste caratteristiche, occorre industrializzare il processo di produzione e fare in modo che la diffusione non sia il compito di qualche volenteroso che inserisca manualmente un file di testo su uno dei tanti portali, ma la conclusione di un flusso informativo che passi per la raccolta, la validazione, l’archiviazione, la pubblicazione e, possibilmente, la visualizzazione.

Costruire “l’industria dei dati pubblici” è molto oneroso e impegnativo: la pandemia ha dimostrato ampiamente l’impreparazione del sistema Paese, soprattutto in una situazione di emergenza, nella costruzione di una metodologia di raccolta rigorosa e affidabile e di un sistema di validazione e di condivisione trasparente e strutturato. Questi limiti, in una condizione di normalità, devono spesso fare i conti anche con la duplice anima delle istituzioni, che producono contemporaneamente dati di flusso e dati di stock.

I due processi produttivi, pur avendo degli elementi comuni, sono governati da logiche molto diverse e richiedono l’impiego di metodologie e di tecnologie differenti per quanto riguarda le fasi di validazione, di diffusione e di visualizzazione. I dati di stock sono trattati attraverso l’impiego di tecniche consolidate e vengono aggregati con lo scopo di descrivere un certo fenomeno nella sua interezza, i dati di flusso descrivono l’evoluzione temporale di un fenomeno e, oltre a essere numericamente più consistenti, hanno delle specificità che richiedono trattamenti e tecniche di validazione e di diffusione diverse dai dati di stock, anche in relazione al GDPR.

La validazione dei dati di stock, generalmente riferiti a un intero anno, richiede molto tempo in quanto gli archivi si devono consolidare e il processo scientifico per garantirne la qualità è molto oneroso: questo vincolo non consente di avere dati aggiornati in tempo reale, ma permette di descrivere i fenomeni con molta precisione. La validazione dei dati di flusso segue un iter molto diverso, attraverso il quale non è al momento possibile garantire la stessa qualità dei dati di stock, ma in compenso risponde al bisogno crescente di numerosi ambiti di ricerca.

C’è poi una questione delicata che riguarda la distinzione tra i dati di sintesi e i dati puntuali: i primi possono essere trattati e condivisi senza vincoli particolari, i secondi, nella maggior parte dei casi, sono soggetti alla regolamentazione sul trattamento dei dati e impongono numerosi limiti non solo alla diffusione ma anche al trattamento e all’analisi da parte dei ricercatori.

Superato lo scoglio organizzativo e metodologico, che già di per sé rappresenta un limite notevole, c’è da affrontare la questione politica. Nonostante i proclami e le linee guida (molto spesso ignorate) dell’AGID, le pubbliche amministrazioni sono ancora dei feudi nei quali regnano le regulae societatis dei gesuiti, ovvero l’obbedienza incondizionata alle volontà dei superiori gerarchici e la negazione dell’evidenza, attraverso l’omissione della diffusione della conoscenza, per indirizzare il pensiero per mezzo di ordini precisi dettati dalla Divina Provvidenza, che, chissà perché, ha sempre sembianze molto umane.

Questo aspetto rende gli archivi delle istituzioni assimilabili a dei fortini inespugnabili, protetti da un recinto chiamato “privacy”, che ne legittima di fatto l’isolamento. Se è vero che negli ultimi anni la collaborazione tra istituzioni è stata rafforzata, e alcuni archivi, soprattutto stock, sono stati condivisi, è altresì vero che le metodologie adottate per la condivisione dei dati sono assolutamente inadeguate rispetto ai mezzi disponibili e fanno ricorso ancora a vecchi e insicuri metodi di trasferimento manuali (upload o FTP).

In altre parole, non esiste una governance nazionale che definisca strategie, metodi e infrastrutture di condivisione, esistono più che altro prassi sedimentate che non tengono conto delle evoluzioni del mondo e della tecnologia e, soprattutto, della necessità di creare un’industria dei dati pubblici. Eppure, le pubbliche amministrazioni dispongono di patrimoni informativi ricchissimi, che vanno dalle caratteristiche dei singoli individui ai dati economici, dai fabbisogni di personale ai bilanci, dalle competenze alle professioni svolte, attraverso i quali sarebbe possibile attuare consapevolmente tutte le riforme di cui il Paese ha bisogno.

Il rinnovamento della PA passa attraverso un reclutamento del personale più efficace e consapevole, un’erogazione dei concorsi pubblici fluida e trasparente, una valorizzazione del merito, della conoscenza e dell’esperienza dei lavoratori, un’ottimizzazione delle spese e degli assetti organizzativi attraverso l’attuazione di politiche sul lavoro sostenibili in termini economici, produttivi e ambientali.

È difficile, se non impossibile, immaginare una riforma che, ancora una volta, ignori il valore dei dati e faccia ricorso alla volontà della Divina Provvidenza. Se è proprio necessario arrendersi all’idea che la salvezza degli uomini non sia frutto del contributo di ciascun individuo al benessere della collettività, ma una specie di miracolo compiuto da uno dei tanti salvatori della Patria, molto cari alle masse, tanto vale identificare il salvatore nei dati e non in un santone improvvisato che dispensi l’elisir delle riforme perfette.